Settimia Spizzichino racconta: per non dimenticare

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Settimia Spizzichino

Uscita dall’inferno di Auschwitz e Bergen-Belsen, 5 mesi per fare ritorno a casa in treno. «Ho passato delle selezioni che Dio solo sa, sono stata molte volte sul punto di essere inviata alle camere a gas»

Settimia Spizzichino, l’unica donna sopravvissuta – insieme con altre 14 persone – al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau dopo la razzia del 16 ottobre 1943, aveva un anno e mezzo quando Mussolini assunse il potere. Aveva compiuto 17 anni quando furono presi con Regio Decreto-Legge del 17 novembre 1938-XVII n. 1728 i “Provvedimenti per la difesa della razza italiana”, che vietava ai cittadini italiani di razza ebraica di poter prestare servizio militare, di possedere aziende, terreni, fabbricati; di non poter avere alle proprie dipendenze persone appartenenti alla razza ebraica le Amministrazioni civili e militari dello Stato, il Partito Nazionale Fascista, le Amministrazioni delle Provincie, dei Comuni, Istituti e Aziende, le Amministrazioni delle aziende municipalizzate, le Amministrazioni degli Enti parastatali, le Amministrazioni delle banche di interesse nazionale, le Amministrazioni delle imprese private di assicurazioni.

La razzia dei nazisti

Il 16 ottobre 1943, il sabato nero, il giorno dell’infamia, il giorno in cui la popolazione di Roma fu ferita dalla razzia dei nazisti, Settimia aveva 22 anni e mezzo. Era una ragazza dai capelli bruni, vivace, allegra, una romana verace. Ripeteva spesso: «Posso stare soltanto a Roma, a Frascati mi sento già all’estero; ero una ragazza che non aveva paura. Soltanto le armi e la guerra mi paralizzavano».

Roma, in quel freddo autunno del ’43, cominciava ad avere paura dei tedeschi e della fame, dell’incerto domani. C’era stata la caduta di Mussolini il 25 luglio, i 45 giorni di libertà sino al risveglio amaro dell’8 settembre; “l’oro di Roma”, con i 50 chilogrammi del prezioso metallo che la Comunità Israelitica fu costretta a consegnare entro le ore 16 di martedì 28 settembre al comando della Gestapo in Via Tasso. Gli ebrei romani tirarono un sospiro di sollievo dopo la consegna dei 50 chilogrammi d’oro. Ma l’illusione fu di breve durata.

A testimoniare, a ricordare quelle tragiche fatali ore mattutine del 16 ottobre 1943 è il racconto di profonda umanità, di cronaca commossa ed esatta scritto da Giacomo Debenedetti nel novembre del 1944: «Faceva freddo, l’umidità della notte piovosa attraversava i muri. Nella levataccia, tutti erano rimasti in camicia e ciabatte, con appena qualche scialletto o pastrano sulle spalle. I letti abbandonati avevano forse custodito un po’ di tepore. Stanchi, con quel senso di cavo e di disseccato che lascia dentro le orbite una grossa emozione, con le ossa peste, battendo i denti, ciascuno tornò alla propria casa, nel proprio letto».

Il silenzio interrotto prima dell’alba

«Non abbiamo avvertito spari né rumori assordanti quella notte» – ha raccontato Settimia Spizzichino in un’intervista dell’aprile 1997 – «forse perché ero molto giovane e avevo il sonno pesante. Però c’era un silenzio di tomba, un silenzio particolare. Alla chiusura dei negozi la sera di venerdì 15 ottobre, mio fratello Pacifico venne a farci visita. Mamma si risentì e fu piuttosto brusca nei suoi confronti “vattene a casa, vattene a casa, prima che cominci il coprifuoco». Il fratello di Settimia, Pacifico, fu salvato in quel momento dai modi bruschi della madre e dai suoi presentimenti.

Settimia ancora sul silenzio di quella notte: «Si avvertiva qualche cosa dal silenzio ovattato che c’era nell’aria, che s’interruppe prima dell’alba con dei passi rumorosi». Erano i passi delle squadre naziste scelte per il rastrellamento che, gridando ordini come iene, avevano circondato tutte le vie di accesso al Ghetto e cominciata la razzia, svoltasi in un contesto di voci, di richiami, d’implorazioni in codice.

L’inizio del lungo incubo

Nella retata di quella mattina spettrale furono presi 1.022 ebrei, tra i quali la ventiduenne Settimia, la cinquantaquattrenne madre Grazia, le due sorelle Ada e Giuditta con la figlia Rosanna di 18 mesi, e portati al Collegio Militare in Piazza della Rovere. Lunedì 18 ottobre furono condotti alla stazione Tiburtina per intraprendere il viaggio su carri stipati sino a cinquanta persone per vagone verso Auschwitz-Birkenau. Dei 1.022 deportati, soltanto 15 persone fecero ritorno: l’unica donna è Settimia Spizzichino.

L’idea di non essere creduti ha tormentato i reduci dai lager. Primo Levi ha lasciato scritto: «Quasi tutti i reduci, a voce o nelle loro memorie scritte, ricordano un sogno che ricorreva spesso nelle notti di prigionia, vario nei particolari, ma unico nella sostanza: di essere tornati a casa, di raccontare con passione e sollievo le loro sofferenze passate rivolgendosi a una persona cara, e di non essere creduti, anzi, neppure ascoltati. Nella forma tipica (e più crudele), l’interlocutore si voltava e se ne andava in silenzio».

Le ultime speranze

«Il convoglio con gli ebrei ammassati come bestie dentro i treni – prosegue Settimia – si è fermato a Padova e la Croce Rossa ci ha preparato una zuppa di minestra, che io non ho mangiato. Sul treno ho avuto dei collassi, disturbi fisici». La madre, Grazia, per infonderle coraggio e con tutto il candore di questo mondo le ripeteva: «Non ti preoccupare, all’arrivo ci sarà il dottore, mica ci ammazzeranno! Siamo arrivati ad Auschwitz di mattina, dopo sei giorni di viaggio, e abbiamo visto quella gente ridotta come scheletri, pareva vecchia, rivestita di stracci. Mia sorella, sfiduciata esclamò “Mica usciamo vivi da qui!”».

Il racconto di Settimia scende nei particolari: «Prima l’incisione indelebile del numero sul braccio (il mio rimarrà per sempre il 66210), poi la tosatura. Le docce, che non erano docce perché usciva poca acqua e quella poca che usciva era bollente. Infine il vestiario, che veniva preso al volo tra una montagna di vestiti senza poter guardare la grandezza. Dopo tutti questi passaggi da operetta che servivano a degradare e ad annullare la persona, la sospirata baracca per riposare dopo una giornata d’inferno.

Mentre attendavamo, un’internata sorrise a mia sorella, le accarezzò la mano lasciandole cadere come dono una radice. Lì per lì non capimmo, tanto che mia sorella gettò via quel dono; quella donna le aveva donato un giorno di vita. E’ impossibile descrivere, raccontare una cosa simile. Non c’è descrizione. Ho passato delle selezioni che Dio solo sa, sono stata molte volte sul punto di essere inviata alle camere a gas. Ma la mia forza di volontà, e anche un po’ di fortuna, mi ha salvato. Io mi devo salvare, io devo tornare, mi ripetevo. La preghiera di allora era: “O Signore, fa che io possa sopravvivere. Fammi resistere, fammi resistere. Nessuno uscirà vivo da qua. Ma ho fatto giuramento, ho fatto voto di essere la loro voce. Risparmiami, o Signore, per essere testimone del tuo volto ad Auschwitz».

27 gennaio 1945, giorno della liberazione

I primi giorni di gennaio 1945, Settimia deve affrontare la marcia forzata da Auschwitz (Polonia) a Bergen-Belsen (Germania); chilometri e chilometri sotto tormente di neve: sono le “marce della morteche i nazisti avevano messo in atto per disfarsi degli ebrei. Ma anche perché le truppe sovietiche avanzavano verso Berlino.

Giunge il 27 gennaio 1945, il giorno della liberazione di Auschwitz ad opera dei soldati sovietici.

«Sono stata liberata il 15 aprile 1945 (il 15 aprile è il giorno del mio compleanno e tutte le cose importanti della mia vita sono avvenute il 15 aprile) dagli anglo-americani nel campo di concentramento di Bergen-Belsen dopo un anno e mezzo d’inferno. Sono giunta a Roma irriconoscibile – pesavo 30 chili – nonostante la mia giovane età (24 anni). Poi con l’aiuto dei parenti e delle amiche ho ricominciato a vivere. Non mi sono sposata e per 38 anni ho lavorato alle Poste».

Il lungo ritorno da unica sopravvissuta

Per fare ritorno a casa ci sono voluti 5 mesi dal quel 15 aprile sino al pomeriggio dell’11 settembre 1945: il lungo viaggio di andata e ritorno dall’inferno concentrazionario di Settimia era terminato. Non ce la fecero a tornare le sorelle Ada e Giuditta con la madre Grazia e la nipote Rosanna.

Settimia Spizzichino è morta il 3 luglio 2000 e riposa nel cimitero del Verano, lasciando la sua umana testimonianza per non dimenticare la follia del nazismo.

Settimia era ritornata a Roma, alla stazione ferroviaria Tiburtina, da dove era partita per il viaggio verso l’inferno, per testimoniare gli orrori dello sterminio di milioni di ebrei, perché «tutti coloro che dimenticano il passato, sono condannati a riviverlo. E’ accaduto, quindi potrebbe accadere di nuovo», ammoniva Primo Levi.

Ho intervistato Settimia Spizzichino in una sera dell’aprile 1997 nella sua casa romana alla Garbatella.

 

Vedi anche l’altro nostro articolo su eurocomunicazione.eu

 

Enzo Di Giacomo

Foto © tratte da “Gli anni rubati” di Settimia Spizzichino e Isa di Nepi Olper, Facebook

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Enzo Di Giacomo
Svolge attività giornalistica da molti anni. Ha lavorato presso Ufficio Stampa Alitalia e si è occupato anche di turismo. Collabora a diverse testate italiane di settore. E’ iscritto al GIST (Gruppo Italiano Stampa Turistica) ed è specializzato in turismo, enogastronomia, cultura, trasporto aereo. E’ stato Consigliere dell’Ordine Giornalisti Lazio e Consigliere Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, Revisore dei Conti Ordine Giornalisti Lazio, Consiglio Disciplina Ordine Giornalisti Lazio

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