Fino a che punto è moralmente lecito un atto terroristico che abbandona degli innocenti alla vendetta?
La Capitale d’Italia durante il periodo dell’occupazione nazista fu scossa da una tremenda tragedia. Il 23 marzo 1944 in Via Rasella, a un centinaio di metri da Piazza Barberini, una bomba a miccia uccise trentadue soldati tedeschi e due civili.
La rappresaglia
Il giorno dopo per rappresaglia, alle Cave Ardeatine, 335 civili furono uccisi dai tedeschi e le cave poi fatte saltare per impedirne l’accesso.
Si poteva evitare?
Tanti tra storici e cittadini, si sono chiesti se questo grande tributo di sangue si poteva evitare ad una cittadinanza già stremata dalla fame e dalle angherie degli occupanti.
Gli avvenimenti storici che portarono alla rappresaglia
All’indomani della caduta del regime fascista – 25 luglio del 1943 – il governo Badoglio aveva dichiarato Roma “città aperta“. Gli alleati sin dal primo momento avevano chiarito che, trattandosi di una “dichiarazione unilaterale” del Governo italiano, per loro non aveva alcun valore. Ne fu la prova il tragico bombardamento della Capitale, da parte di aerei alleati. Infatti, il 19 luglio e il 13 agosto del 1943, a San Lorenzo, furono numerose le vittime e i feriti. Ne fu sconvolto anche l’adiacente cimitero del Verano. Centinaia le tombe che furono scoperchiate dalle bombe alleate, mentre la gente cercava di ripararsi all’interno.
La fuga del Re e le conseguenze
Dopo l’8 settembre del 1943, con l’armistizio di Cassibile, data la fuga del Re Vittorio Emanuele III e di Badoglio, la città si trovò in completa balia dei tedeschi. Nominalmente la Capitale era passata sotto la Repubblica Sociale Italiana. Ma di fatto era “controllata” dalle truppe tedesche. Fin dal giorno dell’armistizio si erano creati in città gruppi antifascisti armati, che periodicamente tendevano imboscate alle truppe occupanti.
La ricorrenza del 23 marzo
Il 23 marzo ricorreva la fondazione dei fasci di combattimento. Un Gap (Gruppo di azione partigiana) facente parte delle brigate Garibaldi, aderente al Partito Comunista, decise di celebrarla con un atto provocatorio. La squadra era guidata da Carlo Salinari che scelse il giorno e l’ora. Gli esecutori furono Franco Calamandrei, Rosario Bentivegna, Carla Capponi. Studentessa che tempo prima si era temerariamente parata davanti l’auto del federale di Roma, e aveva sparato per ucciderlo. Ma aveva ferito il vice federale Serafini, riuscendo poi a fuggire.
L’attentato a via Rasella
Il Gap decise di agire in Via Rasella perché tutti i giorni a ora prestabilita, una compagnia di polizia tedesca del battaglione “Bozen“, quasi tutti altoatesini, vi transitava. Bentivegna vestito da spazzino, portò un carretto, quelli che si usavano all’epoca per la “monnezza”, contenente dodici chili di tritolo. Lo posizionò in mezzo alla strada e all’arrivo dei militari, che cantavano, alle 15,45 diede fuoco alla miccia. Ebbe cinquanta secondi per allontanarsi prima dell’esplosione. La deflagrazione, tremenda, scosse tutto il centro di Roma. Ai soccorritori lo spettacolo apparve terrificate. Sul terreno corpi straziati di trentadue soldati e di due civili che passavano di là. Tra questi un bambino che fu letteralmente decapitato, e il tronco scaraventato a distanza.
L’ira del generale Maeltzer
Sopraggiunsero le autorità, il Generale Maeltzer comandante militare della città, sembrava aver perso la testa. Urlava ed era risoluto a far saltare l’intero blocco di case tra Via Rasella e via delle Quattro Fontane. Inoltre fucilare subito le persone che si trovavano nelle abitazioni. Il colonnello Dollmann e il console tedesco a Roma, Moellhausen, cercarono di rabbonirlo. Nel frattempo Bentivegna e gli altri erano riusciti ad allontanarsi. Avvennero i primi arresti. La gente fu scovata di casa in casa, di bottega in bottega, di cantina in cantina, condotta fuori e allineata a mani alzate lungo i cancelli della Villa Barberini.
Un mio parente che si salvò
Una mia cugina, ora di 98 anni, mi raccontò che quel giorno stavano per catturare anche il marito Baldo, che transitava all’inizio di via XX Settembre. Baldo, tramviere, aveva terminato il suo turno, e stava ritornando a casa a piedi quando incrociò un sacerdote che conosceva e gli disse, trafelato, di scappare da quella zona perché le SS stavano rastrellando. Così, si salvò per miracolo.
I rastrellati
Tutti coloro che per caso passavano in quella via e adiacenti, furono presi e gettati contro i cancelli di Villa Barberini. Un signore venne catturato con i suoi due ragazzi, bastonato a sangue insieme ai figli. Uno di questi sarebbe stato poi ucciso alle Fosse Ardeatine. Un cittadino fu arrestato in un negozio di barbiere, mentre si faceva radere. Un ragazzo di quindici anni che veniva dalla casa di un compagno ove era andato a studiare, fu preso. Pianse e si disperò, ma a nulla valse e il giorno dopo sarebbe stato ucciso anche lui alle Cave Ardeatine.
Gli ordini di Hitler
Hitler appena seppe del fatto aveva ipotizzato l’uccisione di 100 italiani per ogni tedesco morto, nelle ore successive si giunse a dieci italiani. Furono rastrellati nella notte detenuti comuni, ebrei e povera gente che non c’entrava nulla. Altri furono prelevati dalla famigerata prigione di Via Tasso ove erano torturati prigionieri antifascisti, che a pochi mesi dall’arrivo degli alleati a Roma (giugno 1944), sarebbero stati sicuramente liberati, ma la sorte volle diversamente.
Il giorno dell’esecuzione
Il giorno dopo l’accaduto, alle Cave Ardeatine, vi furono esecuzioni a gruppi di cinque. Tra i morti l’ufficiale dei Regi Carabinieri che aveva proceduto all’arresto di Mussolini a Villa Savoia e che era stato poi imprigionato a via Tasso. Ma anche, il colonnello Montezemolo, braccio destro della giunta militare, professori di liceo, avvocati, operai.
Il processo nel 1948
A guerra conclusa, nel 1948 si svolse a Roma un processo contro alcuni degli esecutori tedeschi del massacro tra cui il comandante Kappler. Come riferisce lo storico Massara nel suo libro “Enigmi degli anni terribili“, momenti di tensione si ebbero in aula quando dal pubblico una voce di donna rivolgendosi a Bentivegna gli gridò “assassino, vigliacco, ho perduto mio figlio alle Ardeatine, perché non ti sei presentato alle autorità tedesche?”
Il presidente del Tribunale pose quindi la domanda al Bentivegna, che aveva acceso la miccia. Il quale rispose: «La presentazione degli attentatori non fu esplicitamente richiesta dai tedeschi (…) se ci fosse stata mi sarei presentato». L’imputato Kappler presente anche lui al processo intervenne affermando: «L’eccidio avrebbe potuto essere evitato se si fosse presentato l’attentatore. D’altra parte» – precisò il tedesco – «da tempo erano stati affissi a Roma manifesti che indicavano per gli attentati l’indicazione di rappresaglia da 1 a 10». Più tardi il generale Sorice della resistenza romana dichiarerà: «La vita perduta del colonnello Montezemolo basta a condannare il gesto».
Giancarlo Cocco
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