Anthony Genovese, quando la cucina è “alchimia”

0
1031
Anthony Genovese

Eurocomunicazione intervista lo chef de “Il Pagliaccio”. «Il concetto di viaggio è alla base della mia cucina. È il mio bagaglio formativo, costruito negli anni dalla Francia all’Italia»

Nel cuore di Roma, un’esperienza sensoriale unica: la proposta di ristorazione dello chef Anthony Genovese.

Frutto di una costante ricerca e sperimentazione di gusti e strutture, nel coerente rispetto delle identità culinarie. Reinterpretati in modo tale che anche i più azzardati e sospinti punti di contatto tra culture non valichino mai il varco della fusione, e dunque dell’inevitabile discioglimento in essa.

Se c’è una parola chiave che ben sintetizza quest’oasi di sapore nel cuore del centro storico di Roma essa è senz’altro: “Rispetto“. E questo traspare tutto dall’approccio alla materia, che è etico prima che estetico, sulla scorta di un principio in base al quale la soddisfazione del cliente è un fine ben presente, verso il quale tutto converge, ma che ben si concilia, senza mai prevaricare, con la costante attenzione a una stretta attinenza alla deontologia del gusto.

Abbiamo dialogato direttamente con lo chef, scoprendo e disvelando le origini della sua passione per la ristorazione, che affonda le proprie radici nella convivialità dei tradizionali e caratteristici pranzi delle famiglie del Mezzogiorno d’Italia.

In momenti di un passato remoto, ma al contempo ben saldo nel vissuto personale dello chef, tutti intrisi di fratellanza e autentico amore nei quali il cibo, ben lungi dal consistere in semplice alimentazione, diviene un atto d’amore. Un rituale solidale che congiunge, unisce, rinsalda, in un atto quasi solenne, famiglie e comunità, solidalmente unite intorno a una tavola che diviene “foyer”.

C’è tutto questo, e molto altro, nei piatti di Anthony Genovese. Un viaggio nel passato ma anche una proiezione nello spazio.

C’è il racconto di terre lontane, innovazione ed equilibrio, e soprattutto, il costante dialogo con il cliente, privilegiato destinatario finale di tali creazioni, che superando la loro collocazione e presentazione in un piatto da portata (peraltro, anche questo saggiamente congegnato in un design strettamente coevo alle pietanze proposte), divengono vere e proprie opere artistiche, assurgendo a pura poesia.

Privilegio, elevazione, evasione dalla realtà, slancio fisico e metafisico. Una cena al Pagliaccio è un’esperienza quasi mistica, se vissuta con autentica interiore adesione alla logica e filosofia a essa sottesa, con la consapevolezza del reale tenore e dell’elevata portata del processo di elaborazione che precede la degustazione del piatto e l’attenta selezione dei percorsi enogastronomici. Un processo quasi alchemico, con un implicito intento dimostrativo di equilibrio, bellezza, rispetto, armonia.

Al di là del prestigioso contrassegno Michelin (doppia stella), il ristorante Il Pagliaccio è quasi un tempio, il logos ideale fortemente evocativo di reminiscenze ancestrali e mitologiche.

Ci racconti di lei. Da dove trae origine questa passione?

«Come sapete, sono nato in Francia ma la mia famiglia è italiana, calabrese per la precisione. Ricordo, quand’ero piccolo, organizzavamo i classici pranzi in famiglia e ci riunivamo tutti. La mia passione è nata in quei momenti, e non l’ho più abbandonata. Volevo davvero, a tutti i costi, fare questo lavoro. Già a 10 anni mi piaceva cucinare per i miei amici di allora».

Le pietanze da lei proposte, che appaiono quasi come il risultato di un processo “alchemico”, sono evidentemente il frutto di una rigorosa ricerca di gusti, sapori, spezie e contaminazioni di sapori. Qual è il valore della sperimentazione, in una cucina come la sua e quanto può durare la ricerca del gusto perfetto?

«La sperimentazione è curiosità, alla fine. Una curiosità che è tanto mia, quando vado alla ricerca di ispirazioni, di nuove tendenze, quanto del cliente, che si lascia guidare in un viaggio sconosciuto. Infatti, non abbiamo carta, solo percorsi degustazione al buio. Con la sperimentazione arriviamo a risultati originali, trasportati dalla voglia di scoprire qualcosa di nuovo. Tutto questo in cucina deve però sempre rispettare l’ingrediente. Questa è la prima regola».

Quanto influisce il viaggio sulle sue creazioni?

Anthony Genovese«Il concetto di viaggio è alla base della mia cucina. È il mio bagaglio formativo, costruito negli anni dalla Francia all’Italia, da Londra a Tokyo fino in Malesia. Un viaggio è quello che compio con il mio ospite, dopo aver instaurato con lui, durante un percorso degustazione, sensazioni di empatia e fiducia. Questo grazie ai miei occhi in sala, ovvero al nostro Team di Sala. Il Pagliaccio, per dirla tutta, si potrebbe riassumere nell’esperienza di un viaggio, in giro per il Mondo, tra emozioni e sapori».

Quanto è forte il legame con la Calabria e quanto dei caratteri più autentici dell’indole di tale Regione si riflette nei suoi piatti?

«Il mio legame con la Calabria è forte da sempre. Sono stato cresciuto dai miei nonni. Nonostante questo, le mie origini non influenzano molto i miei piatti, sono appena accennate, sono sfumature. A volte capita che io inserisca elementi come gli Ziti e il ragù. La verità è che le mie origini calabresi si fanno sentire molto di più nel mio carattere».

La cucina, specie quella stellata, può essere definita con una pluralità di accezioni. C’è chi predilige porre l’accento sulla struttura e la consistenza, chi invece punta sulla creatività. Lei sembra conciliare entrambi questi elementi senza tralasciare comunque l’aspetto estetico sia delle pietanze che della loro presentazione nei piatti, estremamente dettagliati e armonizzati. Quale filosofia sottende alle sue preparazioni?

«Il rispetto per l’ingrediente viene prima di tutto. Cerco sempre di mantenere un equilibrio tra l’esaltazione del gusto proprio dei singoli ingredienti e il loro abbinamento nel piatto. In questa fase c’è sempre uno studio molto attento, è il finale ad essere più spontaneo. Naturalmente non mancano creatività e sperimentazione. Una nota asiatica non posso negare ci sia. È il mio background, ma non si deve parlare di fusione, quanto di vie parallele verso il gusto».

Cosa intende comunicare mediante i suoi piatti?

«La risposta a questa domanda è, e così deve essere, in continua evoluzione. Oggi già non parlerei di cosa comunicano i piatti, ma di cosa comunica piuttosto tutta l’esperienza firmata Pagliaccio. Cucina e sala non possono e non devono essere slegate, solo insieme possono far vivere l’esperienza che cerco e voglio per i nostri ospiti. I miei piatti, vera e propria rappresentazione della mia vita, delle mie esperienze, della mia formazione, si completano nel servizio. Per dirla in una parola “Parallels. Nel nostro ultimo progetto il cliente viene abbracciato da un viaggio gastronomico nella sua accezione più ampia, proprio come i paralleli abbracciano il Mondo, tutto, da ovest a est».

 

Francesca Agostino

Articolo precedenteEU-Africa Business Summit 2021, cooperare per la transizione verde e digitale
Articolo successivoHouse of Gucci, una storia di potere e ambizione
Francesca Agostino
Esperto tecnico-legislativo, con pregressa e pluriennale esperienza maturata in ambito parlamentare a supporto dell’attività legislativa di commissioni e gruppi parlamentari di Camera e Senato. Esperienze pregresse in ambito legale maturate presso l’ufficio giuridico dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo e la Direzione Affari legali di ENI SpA. Doppia laurea (Scienze Politiche e Giurisprudenza), collabora con enti territoriali a processi di innovazione turistica del Sud Italia. Critico d'arte e letterario, ha ideato e diretto per 6 anni il festival letterario "San Giorgio. Una rosa, un libro". Fondatrice di "Network Mediterraneo", comitato promotore della candidatura del Tramonto sullo Stromboli come patrimonio dell'Umanità, che ha raccolto l'adesione di 18 comuni calabresi e del Consiglio Regionale della Calabria.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui