Marco Tullio Barboni, figlio del padre di “Lo chiamavano Trinità”

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Marco Tullio Barboni

Un’esperienza traumatica quella passata a causa del Covid-19 ma che non ha posto limite ai suoi successi in campo letterario

«Ho fatto diretta conoscenza con Mr. Covid 19 a gennaio di quest’anno, ed è stata una frequentazione decisamente conflittuale la nostra».

Inizia così, con l’ironia che gli appartiene nella vita, la chiacchierata con lo sceneggiatore e scrittore Marco Tullio Barboni, figlio di quell’E.B. Clucher (al secolo, Enzo Barboni) inventore del filone cinematografico dei fagioli western e del capolavoro, da lui scritto e diretto, che va sotto il nome di “Lo chiamavano Trinità”. Un film indimenticabile, che ha consolidato al Mondo la maestria della famiglia cinematografica dei Barboni e ha fatto nascere una nuova coppia artistica: il duo Bud Spencer/Terence Hill.

«Dopo aver approfittato della mia ospitalità per circa una settimana – nel corso della quale, consapevole della sua presenza, mi ero spinto ben oltre la discussa “vigile attesa” per prevenire la possibile esuberanza dell’”invasore”, il Covid-19, si è ugualmente manifestato con prepotenza una brutta notte, costringendomi all’immediato ricovero al pronto soccorso Covid dell’ospedale San Camillo di Roma, con una polmonite interstiziale bilaterale».

Un’esperienza decisamente traumatica, quella di Marco Tullio Barboni, che nonostante le vicissitudini di salute è riuscito, nel 2021, a raccogliere svariati e importanti riconoscimenti in ambito letterario. Il suo ultimo libro per la Paguro Edizioni dal titolo “Matusalemme Kid – Alla scoperta di un cuore bambino”, è dedicato proprio a suo padre e a Bud Spencer.

Inoltre ha lasciato il segno anche all’estero, allo Switzerland Literary Prize. Si tratta del nuovo grande premio della Svizzera, nato per accomunare le popolazioni di tutto il Mondo, condividere emozioni e valorizzare le culture linguistiche.

Cosa hai imparato da questi due anni di grande difficoltà legati a un’urgenza sanitaria che ha coinvolto tutto il Mondo?

«Il semplice fatto di aver contratto il virus dispensa inevitabilmente, di per sé, eloquenti insegnamenti. Sposta, per così dire, l’angolo di visuale. Fatti, persone, significati, valori reali e valori presunti acquisiscono connotati e valenze diverse rispetto al passato. Purtroppo, però, ho imparato anche che, troppo spesso, finché la tal faccenda riguarda altri – e fortunatamente il più delle volte è così – si tende a rimuovere quello che avrebbe potuto essere, e a ragionare in termini puramente opportunistici. Per esempio, “mi vaccino perché sennò non posso andare a vedere la partita”. Mi sarebbe piaciuto, confesso, che un’esperienza epocale come quella che stiamo vivendo avesse innescato nuove consapevolezze, per fare di noi tutti persone migliori. Quello che osservo, invece, è che sta facendo virare il mio tendenziale ottimismo verso il disincanto».

Il sequel di “Lo chiamavano Trinità” è stato il vero successo della saga che ha inaugurato il grande cinema di tuo padre, che festeggia 50 anni proprio quest’anno?

Marco Tullio Barboni«Ecco: parliamo di cose più amene. E sicuramente più divertenti. È vero: il grande successo commerciale arrivò con il sequel di Trinità. E questo grazie all’intuito del produttore Italo Zingarelli, che decise di ritirare dalle sale “Lo chiamavano Trinità prima del tempo. Allora c’erano la prima, la seconda e la terza visione, e il grande successo del film – uscito appena prima di Natale –  aveva fatto sì che fosse ancora in prima visione agli inizi di marzo. Italo decise di toglierlo dal circuito e contemporaneamente dette incarico a mio padre di scrivere la sceneggiatura del seguito del film, che venne messo in cantiere alla velocità della luce e uscì nelle sale a metà ottobre del 1971, sfruttando tutta la curiosità che si era accumulata nel frattempo».

Che cosa successe poi?

«Solo in seguito, cavalcando lo straordinario successo in tutta Europa del “secondo Trinità”, venne rimesso in circolazione il primo. Il quale raccolse ancora di più di quello che aveva ottenuto alla precedente uscita. Fu un vero colpo da maestro. Quanto a ciò che ricordo della saga, non basterebbe un libro per raccontarlo. Per limitarmi a una sola curiosità, mi piace ricordare la circostanza che caratterizzò la scena finale. In quegli anni io giocavo a rugby, e una domenica, dopo aver seguito la partita sui campi romani dell’Acqua Acetosa, mio padre mi disse di aver avuto l’idea giusta per caratterizzare la scazzottata conclusiva del film. Il cortile della missione sarebbe diventato un campo da rugby, e il sacchetto con il malloppo si sarebbe trasformato nel pallone. “Almeno così, tutte le botte che vi siete dati saranno servite a qualcosa!”, esclamò».

Cosa si augura Marco Tullio Barboni dal 2022? Per la tua famiglia, per la tua carriera, e anche per il mondo della cultura e del cinema?

La dinastia Barboni continua con Ginevra: nipote di Enzo e figlia di Marco Tullio, anche lei è animata dal sacro fuoco del cinema. La sua prima esperienza come autrice di un cortometraggio (La vita che ti aspetta, interpretato da una superba Giulia Lazzarini) le è valso l’inserimento da parte della Black Lab Film Co. tra le cinquanta registe più promettenti al Mondo

«Troppo facile rispondere: mi auguro che questa follia che stiamo vivendo abbia fine. Ciò avrebbe favorevoli ripercussioni su tutto ciò cui hai fatto cenno. Mia moglie Clara potrebbe riprendere a frequentare tranquillamente la sua amatissima Accademia di Belle Arti senza essere costretta a ricorrere a prenotazioni e contingentamenti. Mia figlia Ginevra avrebbe meno difficoltà a promuovere i suoi cortometraggi e a seguire le vocazioni cinematografiche. E io stesso potrei riprendere il discorso –  che la pandemia ha interrotto – riguardo la trasposizione teatrale del mio primo libro,…e lo chiamerai destino”. Riuscirei a consacrare così anche sulla scena i tanti riconoscimenti che il volume ha ottenuto finora grazie alla ripresa di uno dei settori tra i più penalizzati».

«In estrema sintesi, mi auguro che nel prossimo anno si possa recuperare il più possibile uno stato accettabile di salute, intesa nella sua accezione più ampia. Non semplicemente come assenza di malattia, ma di ritrovato benessere ed equilibrio fisico, mentale e sociale».

 

Lisa Bernardini

Foto © Famiglia Barboni (in apertura l’immagine originale risalente al set del film “Lo chiamavano Trinità” e ritrae Marco Tullio Barboni sulla celebre slitta)

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Lisa Bernardini
Toscana, classe 1970, Lisa Bernardini è giornalista pubblicista iscritta all’Ordine dei Giornalisti del Lazio e alla Stampa Estera in Italia, Presidente dell’Associazione Culturale “Occhio dell’Arte APS”, art director. Si occupa di Organizzazione Eventi, Informazione, Pubbliche Relazioni e Comunicazione. Fine Art Photography. Segue professionalmente per lo più personaggi legati alla cultura, all'arte e alla musica

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