Alternanza scuola lavoro, utile ma a volte diventa sfruttamento

0
936
Alternanza scuola lavoro

Viviamo in un periodo storico ed economico nel quale i giovani hanno difficoltà a entrare e stabilizzarsi nel mondo del lavoro

Il 21 gennaio scorso, un ragazzo, Lorenzo Parelli, di 18 anni, è morto.

Quando muore un ragazzo, che sia per un incidente stradale, una rissa o per altri motivi, è sempre una tragica notizia. Lorenzo è morto sul lavoro. E questo rende ancor più triste la notizia. Ma a renderla drammatica è il fatto che questo ragazzo non stava lavorando, ma stava svolgendo il suo ultimo giorno all’interno di un percorso formativo.

Sottili differenze

Non è ancora chiaro se era all’interno di un percorso per le competenze trasversali e l’orientamento (Pcto), come viene chiamata ora alternanza scuola lavoro (Asl, ossia lo svolgere una parte delle ore del percorso scolastico in un’azienda), oppure se era lo stage di un corso di formazione professionale (ossia se avesse lasciato la scuola per frequentare un corso di formazione professionale o di istruzione e formazione professionale) o se stesse facendo un percorso di apprendistato duale, quindi lavorando ma imparando.

Sembrano sottili distinzioni, ma fino a un certo punto. In ogni caso, la fine di una giovane vita fa sempre riflettere, così come le morti sul lavoro, ancora oggi troppo frequenti. Essendo sempre alla ricerca di capri espiatori, quindi, per molti è stato semplice attaccare la riforma della scuola che ha introdotto l’alternanza scuola lavoro (legge 197/2015, chiamata anche Buona Scuola), poi modificata in Pcto, ossia percorsi che non prevedano solo l’attività in azienda, ma che sviluppino le competenze relazionali, comunicative e aiutino i ragazzi a trovare la loro strada.

Le critiche di questi giorni sono rivolte contro “la scuola aziendalista”, quella che “permette lo sfruttamento dei giovani a discapito di un percorso di studi che apra loro le menti etc etc”.

È vero che viviamo in un periodo storico ed economico nel quale i giovani hanno difficoltà a entrare e stabilizzarsi nel mondo del lavoro. È vero che dietro l’attivazione di una partita Iva o, ancora peggio, dietro l’attivazione di un tirocinio non curriculare, si possa nascondere lo sfruttamento, da parte del datore di lavoro, dei giovani. E questa pratica va contrastata con fermezza. La lotta al precariato, allo sfruttamento giovanile e per la sicurezza nei luoghi di lavoro deve essere una lotta di tutti.

Ma questo ha poco a vedere con la critica all’Als o ai Pcto

Si afferma che, la scuola dovrebbe aprire le menti e non insegnare alle menti, lo dice chi ha fatto un liceo, e chi sceglie di frequentare un istituto professionale lo fa perché vuole trovare un lavoro. E per ottenerlo si ha la necessità di impararlo a fare. Quindi diventa fondamentale l’esperienza sul campo, in cui si impara anche a relazionarsi con i colleghi, con i superiori, a rispettare le regole del mondo del lavoro. Regole che sono diverse da quelle della scuola. E soprattutto si impara in un ambiente diverso, di solito più adatto ai ragazzi che sono sofferenti alle regole della scuola. Inoltre si può comprendere se quel mondo, quel lavoro, sia la scelta giusta.

Gli stages, negli istituti professionali, sono sempre esistiti, come anche in quelli tecnici. Si fanno nei corsi di formazione professionale, dove in genere superano perfino le ore in aula.

Questo vuol dire che la scuola non dovrebbe aprire le menti? No, ma non può venir meno la prima mission di quelle scuole. A meno che non si cambi la scuola.

  • Sarebbe il caso che alcuni fini pensatori smettessero di pensare come se tutti fossimo uguali. Esistono ragazzi che non sopportano di stare sui banchi di scuola. Nel mio lavoro ne ho visti tanti. Ragazzi cacciati dalle scuole superiori, dagli istituti professionali. Ma non tutti erano cattivi ragazzi. Spesso erano giovani che non erano adatti ai banchi. E chi pensa che la scuola debba aprire la mente, cosa propone di fare con quei ragazzi? Abbandonarli? Molti di quei ragazzi hanno trovato lavoro grazie agli stages, all’attività svolta in azienda a 16 anni. Sono diventati bravi meccanici, idraulici, operatori informatici, grafici, pizzaioli, parrucchieri, estetisti. Sono riusciti a trovare il loro posto nel Mondo. E, molti di loro, senza passare dal precariato ma solo attraverso contratti di apprendistato o a tempo determinato.

Questo vuol dire che tutto va bene?

No. Un solo morto sul lavoro è comunque un campanello d’allarme che ci dice che qualcosa non va.

Alternanza scuola lavoro Vuol dire che le istituzioni non sono responsabili? Moralmente lo sono, e devono attivarsi per far si che un ragazzo in Asl o in stage non faccia cose che non deve fare, che lavori in sicurezza. Raramente i datori di lavoro sfruttano gli stagisti. Spesso per loro sono un investimento. Molte aziende rifiutano di prenderli perché significa rallentare la produzione distraendo una risorsa dal suo compito per indirizzarla all’affiancamento del tirocinante.

Esistono purtroppo anche coloro che se ne approfittano, che utilizzano gli studenti come operai, dipendenti, manovali a tutti gli effetti, venendo meno alla ragione per cui si trovano lì, cioè apprendere. Questo va assolutamente evitato, con controlli serrati da parte di tutti gli enti coinvolti.

Va evitato lo sfruttamento come che le ore di Alternanza scuola lavoro o Pcto si trasformino in ore perse, con studenti lasciati in azienda senza una guida, senza nessuno che gli dica cosa fare e come farlo.

Concludo con una riflessione sulla scuola in senso generale. Quella italiana continua, nonostante tutte le riforme approvate, a essere radicata nella riforma gentiliana del 1923 come strumento per formare la classe dirigente (licei) e operaia (tecnici e professionali) richiesti da quel sistema economico sociale e culturale che forma il tessuto principale dello Stato italiano ma che, come la scuola stessa, continua ad essere legato a un passato dal quale sembra difficile staccarsi. Forse, più che eliminare una parte essenziale dei percorsi scolastici, si dovrebbe iniziare a riflettere sulla necessità di ripensare completamente la scuola, come luogo dove si formano le generazioni del futuro e insieme al mondo del lavoro, costruire una nuova società.

 

Giacomo Zucchelli

Foto © Iusinitinere, Open, Skuola

Articolo precedenteScrittura: dalla penna d’oca allo smart writing
Articolo successivoQuando lo spettacolo lancia un messaggio e la musica resta per sempre
Giacomo Zucchelli
Giacomo Zucchelli, classe 1973, laureato in sociologia dell’organizzazione, del lavoro e dell’economia. Svolge la sua professione di formatore e consulente per le risorse umane in Toscana. Negli anni ha approfondito le tematiche della comunicazione relazionale, ha realizzato ricerca sociali legate alle relazioni tra gli individui con un’attenzione particolare alle ultime generazioni. Da sempre interessato alla politica e alla sua relazione con la vita reale

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui