“Uomini e barche”, un inno all’ambiente marino

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Uomini e barche

I pescatori del medio Adriatico con i loro usi e costumi ritratti nell’arte e negli scritti per tramandare le tradizioni alle generazioni future

Con la pubblicazioneUomini e barche, cultura, memorie, tradizioni del litorale marchigiano” promosso dalla Regione Marche alcuni anni fa, si voleva, con il coordinamento della professoressa Maria Lucia De Nicolò, coniugare i vari aspetti di un litorale antropizzato soprattutto nei confini terra e mare attraverso i secoli con i mutamenti non solo morfologici ma anche dell’ambiente marino.

La De Nicolò, direttrice del museo della marineria W. Patrignani di Pesaro, proseguendo il recupero del rapporto uomo/mare attraverso le variabili natura, storia, cultura, economia, in un affresco onnicomprensivo, ha pubblicato per la Città francese Aix Provence un suo contributo al convegno tenuto nella famosa Città transalpina su “Il mare come risorsa alimentare”, soffermandosi sul Medio Adriatico dal XV al XVIII secoli. In questo studio fra i vari aspetti artistici legati al mare vi è una pala presente a Porto Recanati in cui è raffigurato Sant’Andrea a destra della Vergine, che tiene in mano un cefalo, la mugella in termine marinaro, che, da un punto di vista antropologico, significa un contatto diretto fra cultura marinara e mare, il pescato.

Le risorse ittiche

D’altra parte nel 1400 fino al 1800, il cefalo è il pesce simbolo anche nella storia dell’arte, e ha un significato archetipico che risale alla primitiva religione cristiana. Nella storia delle Marche, nonostante il contatto con il mare Adriatico che si prolunga per oltre 170 km nella fascia costiera che si protende da Gabicce, al confine con la Romagna fino a Porto d’Ascoli fino al confine abruzzese, l’uso da parte dei marchigiani del mare è difforme e discontinuo nel tempo e nello spazio. Per tutto il periodo medioevale è il ceto medio fino ai primi secoli dell’età moderna a interessarsi del mare, un ceto mercantile che voleva potenziare il mercato di derrate alimentari, di scambi, di trasformazioni merceologiche con trasporti di cabotaggio a media e lunga distanza. Occasioni per mercati e importanti fiere nelle principali piazze italiane.

Lo sfruttamento delle risorse ittiche, problemi connessi alla tutela delle acque territoriali e alla loro gestione, lo sviluppo delle arti alieutiche di costa d’altura e di riflesso la formazione e organizzazione delle marinerie da pesca e il successivo fenomeno dell’urbanizzazione della costa con il decollo del turismo balneare, sono processi che legano indissolubilmente gli uomini alle barche.

Sin dalla prima metà del Seicento si sviluppa una economia ittica. A San Benedetto del Tronto, così come a Pesaro, a Senigallia e a Fano già dal medioevo si documenta la presenza nei quartieri del porto che comprende, oltre ai pescatori, un insieme di artigiani al servizio della navigazione, come i maestri d’ascia, calafati, segantini, cordai, velai, facchini e vetturali. La pesca varia da zona a zona sul litorale marchigiano, da quella alle vongole nei primi del Novecento a Cupramarittima, ai fondali sottili interrotti da una successione di foci fluviali e privi di porti naturali, a eccezione di Ancona, di Focara con il suo porto naturale, riserva naturale di dantesca memoria, che nella Commedia, appunto, parla di Focara ventosa. Ma sono porti naturali o poco accennati e tutto questo porta a una riflessione di realtà locali in cui gli approdi evidenziano la mancata natura portuale del litorale marchigiano.

Tra mare e monti

Veri approdi caricatoi, come sottolinea Claudio Principi, nel suo studio: “primariamente insediamenti che nella denominazione hanno adottato, sin dai tempi lontanissimi e impropriamente, perché porti naturali non sono, il prenome Porto”. Lo scrittore Vincenzo Cardarelli pone l’accento sul carattere originale delle Marche, ben inquadrata, trasferendo l’attenzione sulla gente, in una metafora evocata sulle colonne di un quotidiano del 1951: “Destino! Il marchigiano è un Tantalo preso tra un lontano mare e i monti azzurri, tra un doppio ordine d’immensità”. Anche Carlo Bo aveva intuito la bellezza misteriosa di questa terra, con un’espressione legata al cuore delle Marche di Leopardi, Raffaello, Bramante, Rossini e il mare.

Le ripe di Focara e i cordai di Gabicce

Uomini e barcheIl porto naturale di Focara è stato un simbolo delle attività legate alla marineria che iniziavano in primavera con la preparazione delle nasse (gabbie di legno) e delle reti da posta per le seppie. I vicini gabiccesi, Della Biancia, Scavlèn e i Michelini, Murot, ricorrevano anche alla pesca del cuoll e del saltarèl, caratterizzati dall’utilizzo di reti costiere praticate da tre o quattro persone. Tecniche antiche legate alle forme primitive di pesca. Sulla spiaggia lavorava anche Marino Del Chierico che faceva i ciottoli per le strade, squadrati in primavera ed estate venivano caricati sulle barche per essere trasportati al porto di Cattolica.

Ma accanto ai traghettatori di pietra e ghiaia come Carlo Filippini, vi erano i cordai, che lavoravano lungo la spiaggia di Gabicce. Una grande ruota veniva fatta girare da un bambino per attorcigliare la canapa che sarebbe divenuta la corda per i marinai. I gabiccesi erano tutti vongolari. Le strade che portavano a Gabicce Monte erano lastricate con le valve delle vongole e non esisteva ancora la panoramica fra Pesaro e Gabicce Monte. Per cui i marinai anche di Fiorenzuola e Casteldimezzo portavano i sacchi delle vongole dalla spiaggia fino al paese e poi con il cavallo andavano al mercato di Cattolica. Un rito che si confondeva con quello religioso, come il ritrovamento del sacro legno del Crocifisso miracoloso di Casteldimezzo, ritrovato in mare e portato in processione al borgo.

Il porto di Pesaro

In un bel contributo di Alberta Storoni, per la ricerca della Regione Marche, si parla del porto di Pesaro, fra metà Ottocento e primi del Novecento dove venivano costruite barche in legno. Si susseguirono tre generazioni di maestri d’ascia in un’area estesa alla fine di Via Canale, ora Calata Caio Duilio, con annessi capannoni per la custodia di attrezzi e materiali. Era una cultura marinara che nasceva in maniera artigianale. Erano i famosi trabaccoli. Le imbarcazioni di dimensioni ridotte erano calate sempre dalla banchina e piegate su di un fianco. E intorno a questo rito marinarono vi era il rione del porto e la sua gente in un’area suddivisa dalla Palata alla Fojetta e da questa alla Chiesa del Porto.

Il quartiere del porto ha sempre avuto una sua identità e le stanze delle case e gli aromi delle alimentazioni che gli stessi pescatori preparavano insieme alle massaie nella Muscina, in cui si trovava di tutto dalla coda di rospo al brodetto e alle granceole piene di uova  color rosso e arancio. La stanza più grande della casa era la cucina, dove, alcuni pomeriggi e sere, si riunivano le donne per lavorare a maglia o di ago o per recitare il rosario in forma dialettale per i defunti: “Deo Silla, Deo Silla/Salva in seculo favilla/ Cristo e David in Sibilla/ Quanti treman in futuro/ Quanti giudì è venturo/ Conta stricta discussuru!”.

I pescatori declamavano anche arie d’opera e i versi dei Promessi Sposi o di Dante, perché la cultura portolotta era viva e si tramandava spesso in maniera orale. Ne la “Terra Trema” Visconti riprende questo spirito marinaro di sopravvivenza nei confronti del mare e nei quadri del pittore portolotto pesarese Nino Naponelli i volti asettici e misteriosi delle donne sono statue che aspettano il ritorno dei loro uomini dal mare.

 

Paolo Montanari

Foto © PicClick, Visitare le Marche

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