Il gusto degli italiani per l’amaro

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Amaro

Un libro di Massimo Montanari, docente di Storia dell’alimentazione, spiega perché questo sapore difficile è gradito ai nostri palati

Amaro di Massimo Montanari, edito da Laterza, è un libro che si legge velocemente e con piacere. Come altri testi dell’autore, docente di Storia dell’alimentazione all’Università di Bologna, ci apre le porte di un mondo. L’Italia è terra di buona cucina e di sapori mai banali. Non è un caso: le radici della nostra tradizione gastronomica, così ricca e variegata, sono profonde. È il contesto culturale in cui si nasce, si cresce e si vive a contribuire all’educazione del nostro palato. E nel caso di un sapore peculiare, l’amaro, che a non tutti i popoli piace, la predilezione che manifestiamo noi italiani secondo Montanari è frutto della nostra storia.

I Romani e la lattuga

La parola “amaro” evoca di primo acchito la varietà di digestivi presente sul nostro territorio, una vera ricchezza.Cardo_cynara_cardunculus Ma il gusto, di cui siamo allenati estimatori, è legato, a parere dell’autore, all’infinità di vegetali che consumiamo. Da tempi immemori: gli antichi Romani erano dei fan della lattuga, e nella loro dieta c’erano asparagi, carciofi, cavoli, rape, cardi (nella foto), cetrioli, cicoria, indivia. E legumi come fave, cicerchie e lupini. Tutti alimenti caratterizzati da un sapore amarognolo.

Più tardi, frutti come l’arancia giungono sulle tavole ricercate dei nobili dalla Cina, ma fino al Quattrocento la varietà coltivata in Italia è quella amara. D’altronde, anche in tempi più recenti, non è casuale che siano stati inventate proprio in Italia bevande come il chinotto o l’aranciata amara. E che il caffè, da noi tanto amato, senza zucchero possa avere un piacevole tocco di amarognolo. È un sapore gradito, al quale le nostre papille gustative sono allenate. Forse non dall’infanzia – il dolce è il sapore per eccellenza amato dai piccoli – ma sicuramente dall’ingresso nell’età adulta.

Un cibo anche da ricchi

AmaroPer Massimo Montanari, che nel libro “Amaro” presenta numerose interessanti citazioni di testi antichi, questo piacere per l’amaro ha origine nella nostra frequentazione delle insalate, che in Italia conoscono un tripudio di varietà assente nel nord Europa. Vegetali coltivati e selvatici, che rappresentano una fonte di nutrimento importante per i contadini e per i ceti meno abbienti, ma non solo.

È proprio questa la bella sorpresa che l’autore, da bravo storico, ci riserva. Cavoli e radicchi, cicorie e broccoli già a partire dal Medioevo e poi nel Rinascimento erano anche sulla tavola dei nobili. L’ampio rilievo dedicato dagli autori nostrani dei primi ricettari o di opere dedicate al cibo lo attesta. E questa è una differenza importante con altre zone d’Europa, dove i ceti abbienti privilegiavano la carne.

Fa bene alla salute

Che cosa differenziava il piatto del contadino da quel nobile? «Il gioco degli accostamenti: una ricetta povera si nobilita quando si affianca a vivande di pregio», scrive Montanari. Per i ricchi, il gusto amaro dell’insalata accompagna e magari stimola l’appetito, una funzione che ai poveracci certo non interessava, perché la fame era per loro una compagnia costante. L’amaro delle erbe è anche connesso a una tradizione popolare che lo considera un cibo che fa bene alla salute. Un concetto giunto fino ai giorni nostri, rileva l’autore, con le pubblicità degli amari e delle loro benefiche virtù.

 

Maria Tatsos

Foto © Wikipedia Coyau, Wikipedia Kurt Stueber

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Maria Tatsos
Giornalista professionista, è laureata in Scienze Politiche e diplomata in Lingua e Cultura Giapponese presso l'IsiAO di Milano. Attualmente lavora come freelance per vari periodici femminili, collabora con il Museo Popoli e Culture del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime) e con il Centro di Cultura Italia-Asia. Tiene corsi di scrittura autobiografica ed è autrice di alcuni libri, che spaziano dai diritti dei consumatori alle religioni asiatiche. È autrice del romanzo storico "La ragazza del Mar Nero" sulla tragedia dei greci del Ponto (2016) e di "Mai più schiavi" (2018), un saggio su Biram Dah Abeid e sulla schiavitù in Mauritania, entrambi editi da Paoline. Nel tempo libero coltiva fiori e colleziona storie di giardini, giardinieri e cacciatori di piante che racconta nel corso "Giardini e dintorni".

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