Come era buono il cibo di una volta con piombo, cobalto e arsenico

0
791

Curiosità della Storia Europea (3)

A Roma si racconta di un papa, forse Gregorio IX, che, nel Medioevo, usciva dai palazzi Lateranensi travestito per non farsi riconoscere e a cavallo, accompagnato da tre guardie armate, andava verso il centro della città, tra negozietti e mercanzie di ogni tipo.

Dal primo fornaio che incontrava, ne assaggiava la farina, se aveva qualche dubbio sul prodotto, prendeva un bicchierino che s’era portato appresso, ci metteva un po’ d’acqua e vi gettava dentro un po’ di quella farina.

Se una parte andava subito a fondo mentre un’altra restava a galla, non perdeva tempo, chiamava le guardie e faceva tagliare la testa allo sfortunato fornaio colpevole di aver aggiunto gesso alla farina. Altri tempi e forse è una leggenda, ma l’adulterazione della farina con il gesso era diffusissima in Italia, almeno fino alla fine della seconda guerra mondiale.

Oggi le cose non sono poi tanto cambiate.

Come in un vero bollettino di guerra non passa giorno che i Nas, il nucleo antisofisticazioni, non trovi nella grande e piccola distribuzione, nei ristoranti o alberghi, cibo avariato o rielaborato chimicamente con problemi per la salute di ognuno di noi con conseguenze anche gravi.

Nell’apprendere queste notizie, specie tra i più anziani, la frase più ricorrente è: «Come si mangiava bene una volta, quando i cibi erano sani e nella loro preparazione non c’era nulla di chimico».

Tutto molto bello, peccato che è assolutamente falso.

Intanto, anche quando il commerciante era onesto non c’era come oggi, la possibilità di conservazione sottovuoto o al freddo il prodotto alimentare, l’igiene era un optional e la manipolazione dei cibi non sempre avveniva correttamente, in quanto poi alla sofisticazione dei cibi è una storia vecchia.

Facciamo un passo indietro e arriviamo a un editto pubblicato a Parigi il 25 novembre del 1396, dal rappresentante del re Carlo V I, da poco salito al trono.

Nel testo si fa divieto assoluto per chi vendeva burro di mischiarlo o, peggio, colorarlo con fiori di calendula o altre piante erbacee che davano al prodotto un bell’aspetto cremoso, ma tossico e lo stesso divieto era di ricoprirlo con uno strato di burro salato, per nasconderne la scarsa qualità.

Allora, come oggi, erano, però, proprio i commercianti o produttori onesti a denunciare questa situazione che metteva in crisi gli affari e allontanava i clienti.

Un documento dei produttori di birra parigini del 1292, dichiarava che il prodotto doveva essere ricavato esclusivamente da orzo, segale e avena, ma senza aggiungere, come, purtroppo, era costume, prodotti tossici per la salute come bacche selvatiche, il loglio, una graminacea spontanee e infestante e, addirittura, pece resina e tutto per coprire un prodotto scadente.

Un divieto che si è dimostrata spesso inutile.

Ancora due secoli fa, nell’Inghilterra dell’Ottocento i maestri birrai producevano la schiuma della birra niente meno che con solfato ferroso.

Non meglio andava per il vino quando era mediocre, in questo caso si rendeva più accettabile aggiungendo colla di pesce o dell’ossido di piombo, tanto per donargli un bel coloro rubino e… ammazzare il bevitore.

Come ha ben documentato Il professore di Storia all’Università di Bologna, Paolo Sorcinelli, nel suo libro: “Gli italiani e il cibo. Dalla polenta ai cracker“, inquadra benissimo la situazione alimentare nella storia come dimostra in questo breve estratto “Alla fine dell’Ottocento, la frode alimentare era oltremodo diffusa: si va dal vino fabbricato senza uva, al formaggio che non conteneva una goccia di latte. Al caffè veniva aggiunta la cicoria, al pepe la spazzatura, allo zucchero la polvere di marmo, alla farina il gesso, allo zafferano l’ocra carmine, al pane il solfato di calce e le ossa macinate (che conferivano maggiore bianchezza). Perfino le patate troppo vecchie «venivano umettate, pulite, spazzolate con cura e in questa nuova toilette facevano la loro apparizione sui mercati»”.

Non dimentichiamo l’olio di oliva, la nostra eccellenza da sempre, che veniva accresciuto con olio di semi vari compreso quello di garofano.

Nel Settecento, molti osti londinesi fabbricavano del “buon gin” con vari prodotti, oltre alla distillazione di frumento e orzo, usavano la macerazione di una miscela composta di erbe, spezie, piante e radici, al quale aggiungevano acido solforico e acquaragia, insomma un vero toccasana per la salute.

I prodotti più costosi, come era allora il pepe, veniva tagliato con bacche di ginepro e, per i meno abbienti, era in vendita la cosiddetta polvere di pepe, in pratica la spazzatura della dispensa dove poteva esserci rimasto qualche granello di pepe, per il cacao poi c’era addirittura la polvere dei mattoni e altre prelibatezze del genere.

Anche il leggendario tè delle cinque, la tipica bevanda inglese, era “tagliato” con foglie di frassino essiccate e triturate, di rovo essiccate e colorate con verderame e bei fondi di tè resi di nuovo solubili con una soluzione di gomma e colorati con la grafite.

A tal proposito ricordiamo una vignetta del 1855, apparsa sul settimanale satirico inglese Punch, dove troviamo una bambina in drogheria che dice: «Mamma chiede un etto di tè della migliore qualità per uccidere i topi e mezzo etto di cioccolato per sterminare gli scarafaggi!».

Ma il vero top si raggiungeva in pasticceria, dove, per rendere il dolce anche bello a vedersi si usavano, da veri criminali incoscienti, resine, gomme, cobalto e vari derivati dal piombo con una buona manciata di solfuro di arsenico insieme a derivati di rame.

Chissà, se un domani, rimpiangeremo le belle sofisticazioni di questi nostri tempi con i buoni prodotti scaduti e rimessi in circolazione, il buon vino adulterato, il pesce stagionato e i bei pomodori pelati coltivati nella Terra dei Fuochi.

Mai dire mai.

Antonello Cannarozzo

Foto © European Community, 2014

Articolo precedenteIn Germania il salario minimo è legge
Articolo successivoIl “peso” dell’Europa
Antonello Cannarozzo
Giornalista professionista dal 1982. Nasce come consulente pubblicitario, in seguito entra nella redazione del quotidiano Il Popolo, dove diviene vaticanista ed in seguito redattore capo. Dal 1995 è libero professionista e collabora con diverse testate su argomenti di carattere sociale. In questi anni si occupa anche di pubbliche relazioni e di uffici stampa. La sua passione rimane, però, la storia e in particolar modo quella meno conosciuta e curiosa. Attualmente, è nella direzione del giornale on line Italiani.net, rivolto ai nostri connazionali in America Latina, e collabora con Wall street international magazine con articoli di storia.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui