Balcani: violenze da stadio e connotazioni etnico-politiche

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Gli incidenti tra ultras serbi e albanesi riaprono vecchie ferite: quelle delle guerre balcaniche degli Anni Novanta, che cominciarono proprio negli stadi

Serbia-Albania, la partita valida per le qualificazioni a Euro 2016, avrebbe dovuto suggellare la difficile riappacificazione tra due popoli nemici: è stata invece interrotta al 44′ del primo tempo dagli incidenti provocati dagli ultras serbi. E fin qui nulla di nuovo, considerata la pericolosità dei supporters di casa. Ma a fare inquiedine è il motivo di quella reazione: per un assurda e sconsiderata provocazione (se vogliamo così definirla), un drone che portava legata la bandiera della Grande Albania è stato fatto alzare in volo dai tifosi albanesi e fatto svolazzare sul terreno di gioco, sulle teste dei calciatori serbi. I quali, hanno pensato bene di strappar subito via quel vessillo, ritenuto offensivo per i colori nazionali e per il pubblico di casa, scatenando però la rabbia dei giocatori albanesi. La rissa è servita, ma quando ci sono di mezzo i popoli balcanici, una rissa da stadio assume significati diversi da quelli di un semplice tafferuglio tra supporters di diversa fede calcistica

La violenza da stadio in salsa balcanica con tutte le sue connotazioni etnico-razziali non è certo nata ieri sera, ma era comparsa nell’ex Jugoslavia già a partire da metà anni Ottanta, con qualche anno di ritardo e con una chiara peculiarità rispetto alle altre nazioni europee interessate dal fenomeno, poichè le tifoserie jugoslave davano alla violenza nel calcio una connotazione prettamente etnico-politica. Nel 1985 le cronache locali relegarono a teppismo da curva i primi scontri tra i supporter più accesi delle due principali squadre di Belgrado, i Delije (che in serbo vuol dire “Eroi”) della Stella Rossa, e i Grobari (i “Becchini”) del Partizan. Ma ben presto gli ultras jugoslavi, soprattutto serbi e croati, iniziarono ad intendere il proprio ruolo diversamente da come fino ad allora era stato: non più a sostegno di una squadra di calcio, bensì di un’identità nazionale. Questo nuovo modo di interpretare la propria appartenenza calcistica attecchì in maniera particolare presso gli ultras della Stella Rossa, che nella seconda metà degli anni Ottanta abbracciarono in pieno l’ideologia “pan-serba” propugnata da Slobodan Milosevic.

Erano quelli anni difficili per la Jugoslavia orfana del Maresciallo Tito, dove il vuoto lasciato dall’uomo che per 40 anni era riuscito a far convivere popoli di diversa etnia e religione cominciava ad essere riempito da nuovi idoli dalle parvenze nazionalistiche. Milosevic, in particolare, sognava una Jugoslavia che fosse sempre più una “Grande Serbia” a discapito delle autonomie nazionali vigenti fin dall’epoca di Tito nelle altre repubbliche federate, ma aveva dovuto scontrarsi con le possenti rivendicazioni autonomistiche di queste ultime. Dopo la morte di Tito, la voglia d’indipendenza da Belgrado si era imposta sempre più in Slovenia, Bosnia e soprattutto in Croazia, il cui nazionalismo antiserbo, represso per molti decenni, stava rinascendo grazie alla spinta del leader autonomista Franjo Tudjman.

In quegli anni a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta, il calcio diventò simbolo di unità etnica e divisione nazionale. Lo si comprese bene il 19 marzo 1989, in occasione dell’incontro a Belgrado tra i croati della Dinamo Zagabria ed il Partizan, quando gli ultras di quest’ultima e i rivali storici della Stella Rossa stipularono addirittura una “santa alleanza serba” in ottica anticroata. Il dopo-partita fu caratterizzato da violenti scontri per le strade della capitale, con i Deljie e i Grobari serbi da una parte ed i Bad Blue Boys croati dall’altra. E pensare che i giocatori delle due squadre, sentendo un clima pesante intorno al match, erano entrati in campo tenendo uno striscione su cui era scritto “Jugoslavia”, in un disperato tentativo pacificatore…

Il 6 maggio 1990 la Croazia si recò alle urne per eleggere i rappresentanti del Parlamento locale: si trattava di un test molto delicato, quasi un referendum sulla secessione dalla Jugoslavia, che si rivelò un trionfo per i nazionalisti dell’HDZ (l’Unione Democratica Croata) guidati da Tudjman. La tensione con Belgrado salì così alle stelle proprio nella settimana che precedeva la partita tra la Dinamo Zagabria e la Stella Rossa, in calendario per il 13 maggio, quando le squadre elevate a simbolo del nazionalismo croato di Tudjman e della “Grande Serbia” di Milosevic si sarebbero affrontate allo Stadio “Maksmir” di Zagabria. I calciatori, quella maledetta domenica, in campo non ci scesero nemmeno. Non ne ebbero la possibilità.

Per tutta la mattina, prima che l’incontro avesse inizio, i Delije serbi si resero protagonisti di gravi atti di teppismo per le strade della città, abilmente guidati dal loro capo Zeliko Raznatovic, il futuro Comadante Arkan, che negli anni di lì a venire si sarebbe macchiato di orribili crimini di guerra assieme alle sue milizie, le famigerate “Tigri”, composte per la gran parte da ex ultras della Stella Rossa. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Il “Maksmir” e le strade circostanti divennero ben presto terreno di violentissimi incidenti tra i Bad Blue Boys e i Delije. Chi quel giorno si trovava a Zagabria racconta di aver visto in anticipo ciò che sarebbe accaduto pochi mesi dopo: due eserciti composti da tifosi, che si scontravano mossi dall’odio reciproco, tra slogan anticroati da parte dei serbi (“Zagabria è Serbia”) e inni a Tudjman “liberatore” da parte dei croati.

Ci vollero quasi 2mila agenti dei reparti antisommossa, autoblindo ed idranti per riportare la calma nello stadio e nelle strade. Al calar del sole di quel 13 maggio 1990, il Bloody Sunday jugoslavo si concludeva con 60 feriti tra ultras e poliziotti. Il segno che la situazione stesse ormai precipitando era evidente: la Jugoslavia visse quel giorno la “prova generale” della guerra, che sarebbe iniziata di lì a poco più di un anno.

Alessandro Ronga

Foto © Wikicommons 2012

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Alessandro Ronga
Giornalista e blogger, si occupa di Russia e dei Paesi dell'ex Urss. Scrive per il quotidiano "L'Opinione" e per la rivista online di geopolitica "Affari Internazionali". Ha collaborato per il settimanale "Il Punto". Nel 2007 ha pubblicato un saggio storico sull’Unione Sovietica del dopo-Stalin.

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