Galizia: cronaca di un viaggio impossibile

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Lo scrittore austriaco Martin Pollack dedica un interessante libro a una terra ormai scomparsa, resa irriconoscibile dagli orrori della storia e degli uomini

Si scorge un’esigenza intima e profonda dietro le pagine dedicate da Martin Pollack alla Galizia, un territorio devastato dalle cicatrici della storia, ovverosia la volontà di recuperare qualcosa prima che tutto precipiti irrimediabilmente nell’oblio. Una caratteristica che lo accomuna a un altro grande scrittore, purtroppo prematuramente scomparso, instancabile cantore della Mitteleuropa. Stiamo parlando di Sebald, il quale non cessava mai di percorrere le strade tortuose del tempo, convinto del fatto che non è tanto il futuro a risultare inconoscibile, quanto piuttosto il passato, che continuamente si sottrae alla nostra ambizione indagatrice.

Pubblicato da Keller editore nella collana reportage, Galizia è un libro affascinante e necessario, un itinerario onirico all’interno di un luogo che non esiste più, ma anche una testimonianza preziosa e dettagliata per comprendere le lacerazioni dell’ Europa di oggi.

Peculiare la sua forma nella quale la narrazione, il documento storico e il brano letterario o poetico d’epoca si intersecano in perigliose geometrie a costituire un paesaggio che è, in prima istanza, un luogo dell’anima. Leggende popolari, come quella dell’avido ebreo Selman, convertito al cristianesimo per evitare il patibolo e trasformato in vampiro dopo la morte, e vicende reali si intrecciano indissolubilmente. Come un leggendario alchimista, Pollack filtra la sua materia per tramutarla in metallo prezioso per il lettore avido di sapere.

Lo stesso mutare continuo dei nomi definisce le coordinate di una geografia incerta, priva di punti di riferimento e delimitata da confini continuamente mutevoli. Un territorio che oggi è diviso fra Polonia e Ucraina, ma che nel corso del tempo è appartenuto all’Impero asburgico e all’Urss. Così L’viv, L’vov, Lemberg e Leopoli sono allo stesso tempo la medesima città e tante realtà urbane differenti, come diversi sono i punti di vista delle etnie che l’hanno abitata e gli idiomi che in essa risuonavano.

Paesaggi irreali accolgono le gesta di queste genti costantemente sull’orlo della follia. Alla fine dell’Ottocento il repentino sviluppo dell’industria petrolifera trasforma il territorio in una sorta di girone dantesco, nel quale uomini si aggirano come ombre, fra i bagliori metallici del greggio e l’odore pungente della nafta. Gli operai affrontano privazioni e rischi indicibili, vivono un’esistenza da schiavi, nascono e muoiono mentre pochi privilegiati approfittano del frutto delle loro fatiche. Migliaia di persone emigrano da quella terra infausta, trovando un destino a volte ugualmente amaro nelle lontane lande dell’America.

Come lo scrittore Bruno Schulz, autore de Le botteghe color cannella, Pollack appare preda di un incantesimo che lo spinge a ricreare quel mondo sempre sull’orlo del baratro. La maggior parte delle opere di Schulz è andata perduta, i suoi scritti bruciati o dispersi, i suoi quadri celati per sempre all’occhio dello spettatore. I racconti, parte del ciclo superstite, costituiscono un album di ricordi d’infanzia, un mondo onirico, esuberante, grottesco e pirotecnico come una tela di Chagall. Il loro stesso autore è stato ucciso dalle SS durante un rastrellamento. Per questo Pollack aspira trarre dal nulla quanti più frammenti possibile di un mondo andato in pezzi molto tempo fa.

Ritratti indimenticabili balenano di fronte ai nostri occhi, come evocati da un apprendista stregone, per sparire nuovamente nell’aria. Incontriamo il poeta e giornalista Karl Emil Franzos mentre percorre in treno le regioni tra i fiumi San e Zbruč, schierandosi nei suoi reportage sempre dalla parte degli oppressi. Lo vediamo sedersi in una bettola e protestare per aver trovato un chiodo, una molla e un ciuffo di capelli nella sua cotoletta di vitello ripiena. L’oste, imperturbabile, gli fa notare che nessuno lo obbliga a mangiare quelle vecchie ferraglie. Una testimonianza certo condita da uno spirito graffiante, che la dice lunga riguardo la Galizia dell’epoca. Una realtà nella quale la vita è misera, le vie di comunicazione pessime e preda del fango che tutto inghiotte, come del resto appaiono ancora oggi a chi abbia la ventura di percorrere quei luoghi, almeno per quanto riguarda la zona attualmente parte dell’Ucraina.

Incontriamo ancora Ivan Franko, «figura esemplare della miscela di culture nell’impero asburgico», il quale scriveva con la medesima facilità in ruteno, tedesco e polacco. Eppure, anche se sullo sfondo di una cultura in gran parte ancora solidale, gli scontri e i crescenti dissapori fra polacchi e ruteni (gli attuali ucraini) e l’antisemitismo crescente, ostacolo all’assimilazione, prefigurano le tragedie future.

Poeti oggi poco noti come l’ucraino Hnat Chotkevyč narrano, non senza il gusto dell’idealizzazione romantica, le gesta dei briganti che percorrono la Galizia. La cittadina di Sadhora fornisce asilo a imbroglioni e contrabbandieri di cavalli, ma nel contempo ospita il sontuoso palazzo in stile pseudomoresco del rabbino taumaturgo, centro non ufficiale dello chaddismo, chiamato ironicamente dagli ebrei illuministi di Černivci il “piccolo Vaticano”. Un anacronistico cerimoniale governa i riti della sua corte sontuosa, che scimmiotta i fasti principeschi del Rinascimento.

Vediamo ancora il quasi dimenticato Józef Wittlin, autore del romanzo Il sale della terra, assistiamo allo sconcerto di questi popoli di fronte al deflagrare inaspettato del primo conflitto mondiale. Un autore da riscoprire, a metà fra l’umorismo di Hasek e l’ironia amara di Roth.

Proprio Joseph Roth è il figlio più celebre di queste terre, instancabile e geniale cantore della Finis Austriae. Nel 1924, su incarico del Frankfurter Zeitung, compie un viaggio nella sua terra natale, ispirazione costante della sua opera letteraria. Ne emergono paesaggi dallo «splendore sbiadito», luoghi remoti dove lo straniero è inevitabilmente destinato a perdersi.

Numerosa in tutto il territorio la presenza degli ebrei. La letteratura galiziana parla sovente del povero Jingl (giovane) ebreo che aspira infrangere le barriere di una religiosità chiusa per attingere ai lumi della cultura tedesca. Molti lasciano i declinanti shtetl della Galizia orientale per emigrare all’estero, alla ricerca di un futuro migliore.

Popoli misteriosi e scomparsi emergono dalle nebbie del tempo. A Verkhnje Syn’ovydne sono di casa i boyko, allevatori di bovini abitanti dei Carpazi boscosi. Nel 1904 lo stesso Ivan Franko, allestì una spedizione etnologica nelle loro terre. Fra le montagne, nelle valli del Pruth e del Čeremoš, si aggirano gli huzuli, popolo misterioso dalle origini oscure, forse discendente dai Goti o addirittura dai Mongoli, che crede nella presenza dei troll e dei demoni boschivi.

Ma questo è anche un libro di immagini, bellissime le fotografie d’epoca tratte dall’archivio personale dell’autore, e di suoni, come quello della trembita, una sorta di lunghissimo flauto in legno di abete rosso suonato sulle montagne da uomini che hanno «rinunciato al mondo» e non hanno «bisogno di possedere alcunché». Parole che conferiscono a queste genti un’aura di primigenia innocenza, che percepiamo come definitivamente estinta.

Pregio del libro muoversi in territori a metà fra il mito, da qui il senso di struggente nostalgia, e la realtà concreta e brutale. Se la Galizia è ormai scomparsa, insieme agli ebrei che in gran parte la abitavano, le ferite inferte dalla storia sono ancora ben visibili. Lo scorrere del tempo non ha cancellato la proverbiale miseria di questi luoghi, che spinge ancora oggi la popolazione all’emigrazione di massa, la mancanza di vie di comunicazione, la rivalità fra polacchi e ucraini. Porre un argine all’oblio significa anche coltivare la memoria, ricordare che le antiche cicatrici, in qualsiasi momento, possono riaprirsi e sanguinare.

Riccardo Cenci

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Martin Pollack

GALIZIA – Viaggio nel cuore scomparso della Mitteleuropa

Con un testo di Claudio Magris

Traduzione di Fabio Cremonesi

Keller editore

pg. 250 € 18,00

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immagini dall’archivio di Martin Pollack

ritratto di Martin Pollack di Ayse Yavas

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Riccardo Cenci
Riccardo Cenci. Laureato in Lingue e letterature straniere moderne ed in Lettere presso l’Università La Sapienza. Giornalista pubblicista, ha iniziato come critico nel campo della musica classica, per estendere in seguito la propria attività all’intero ambito culturale. Ha collaborato con numerosi quotidiani, periodici, radio e siti web. All’intensa attività giornalistica ha affiancato quella di docente e di scrittore. Ha pubblicato vari libri (raccolte di racconti e romanzi). Attualmente lavora come Dirigente presso l’Enpam.

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