Testimone silente di oltre cent’anni di storia dell’Albania: l’Archivio Marubi

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Inaugurata alla Triennale di Milano una mostra fotografica che include anche gli scatti di Pietro Marubbi, piacentino e padre della fotografia in terra albanese

La gente del posto lo chiamava “il mago”: dava fuoco a materiali misteriosi e catturava l’immagine di chi gli stava davanti. A metà Ottocento, gli albanesi non avevano mai visto un fotografo in vita loro, né sapevano cosa fosse questa strana tecnica chiamata fotografia, creata qualche anno prima dal francese Daguerre.

A diffonderla fu un italiano, Pietro Marubbi, che aprì il primo studio fotografico dell’Albania a Scutari. A lui e ai suoi successori è dedicata l’interessante mostra L’archivio Marubi. Il rituale fotografico, inaugurata ieri a Milano, presso la Triennale. Curata da Zef Paci, professore di Storia dell’Arte e Pittura all’università di Tirana, propone una selezione di 170 immagini in bianco e nero, che spaziano dal 1860 agli anni Novanta del XX Secolo. La mostra è stata realizzata in collaborazione con il Museo Marubi di Scutari, aperto nel 2016, primo museo di fotografia albanese che raccoglie mezzo milione di negativi in lastre di vetro e pellicole, molti ancora inediti.

La mostra alla Triennale è un’occasione per ripercorrere oltre cent’anni di storia dell’Albania attraverso i volti della sua gente, che affida dapprima a Marubbi e poi ai fotografi che lo seguiranno i momenti cruciali della propria vita. Se oggi viviamo un’epoca di bulimia fotografica, in cui la disponibilità capillare del cellulare tramuta chiunque in un potenziale fotografo, visitando questa mostra ci si rende conto di come la fotografia in passato aveva una funzione quasi sacrale. Andare a Scutari per farsi fotografare allo studio Marubi era un rito. Le famiglie abbienti, ma anche i meno ricchi, risparmiavano per affrontare il viaggio e posare davanti a un obiettivo, in raffinati abiti occidentali o in costumi tradizionali albanesi. Mirela Kumbaro, ministra albanese della Cultura, presente all’inaugurazione della mostra, ha raccontato come anche i suoi nonni avessero affrontato il viaggio a Scutari per avere una foto dello Studio Marubi.

Chi fu Pietro Marubbi? Il fascino di questa mostra risiede in parte anche nelle vicende umane di questo personaggio. Nato nel 1834 a Piacenza, il giovane Pietro (nella foto, un autoritratto) si fa conquistare dalle idee mazziniane e garibaldine. Si oppone al giogo borbonico e partecipa all’attentato che porta all’uccisione del sindaco di Piacenza. Per sfuggire alla galera e alla morte, è costretto a lasciare la sua città. Sceglie i territori balcanici dell’Impero Ottomano: dapprima va in Grecia, poi a Valona e infine nel 1856 si stabilisce a Scutari, dove getta definitivamente i panni di rivoluzionario aprendo il suo studio di fotografia. Sposerà un’italiana, ma la coppia non avrà figli. Pertanto, alla sua morte nel 1903 lo studio passerà al giovane aiutante e figlio del suo giardiniere, Kel Kodheli (1870-1940), che assumerà il cognome Marubi (nel frattempo albanesizzato e scritto con una “b” in meno). L’eredità verrà poi trasmessa al figlio di Kel, Gegë (1907-1984), che nel 1970 chiuderà lo studio, cedendo tutto l’archivio fotografico allo Stato albanese. Il gesto sarà seguito da alcuni altri fotografi albanesi famosi – presenti anche in questa mostra – contribuendo a creare un patrimonio fotografico di inestimabile valore.

Un po’ come Felice Beato in Giappone, Marubbi ha la fortuna di sbarcare, a metà Ottocento, in un Paese balcanico dall’atmosfera quasi medievale, che diventerà uno stato indipendente solo nel 1912. La magia della sua arte riesce poco alla volta a vincere la ritrosia della popolazione musulmana a farsi fotografare, legata alla religione. Come si vede in uno scatto esposto, nell’Ottocento ci sono ancora donne musulmane che si fanno fotografare con il volto completamente velato. Non mancano, tuttavia, fra i ritratti, dervisci e notabili musulmani, lusingati dalla magia fotografica. Più disponibile, invece, è la piccola comunità cristiana, che chiede l’intervento del fotografo per documentare matrimoni, battesimi e altri momenti cruciali della vita.

In mostra si trovano frammenti di esistenza colti anche in condizioni estreme o marginali (la morte, la prostituzione, la follia). Qualunque sia l’approccio e lo stile del fotografo, ogni scatto testimonia del valore sociale della fotografia, della sua capacità di cogliere la quotidianità o di immortalare quello si vuole trasmettere ai posteri. Sotto gli occhi del visitatore, sfilano militari, religiosi, famiglie, operai. L’archivio del fotografo diventa così un luogo di memoria, che testimonia i cambiamenti della società.

 

Maria Tatsos

Foto: © Ufficio stampa Triennale, Maria Tatsos

Info: L’archivio Marubi. Il rituale fotografico

La Triennale di Milano (www.triennale.org)

16 novembre – 9 dicembre 2018, ingresso libero

Orari di apertura: martedì – domenica, ore 10.30 – 20.30

 

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Maria Tatsos
Giornalista professionista, è laureata in Scienze Politiche e diplomata in Lingua e Cultura Giapponese presso l'IsiAO di Milano. Attualmente lavora come freelance per vari periodici femminili, collabora con il Museo Popoli e Culture del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime) e con il Centro di Cultura Italia-Asia. Tiene corsi di scrittura autobiografica ed è autrice di alcuni libri, che spaziano dai diritti dei consumatori alle religioni asiatiche. È autrice del romanzo storico "La ragazza del Mar Nero" sulla tragedia dei greci del Ponto (2016) e di "Mai più schiavi" (2018), un saggio su Biram Dah Abeid e sulla schiavitù in Mauritania, entrambi editi da Paoline. Nel tempo libero coltiva fiori e colleziona storie di giardini, giardinieri e cacciatori di piante che racconta nel corso "Giardini e dintorni".

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