Il cane che si morde la coda

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Il difficile rapporto tra chi governa e i giovani

Uno dei temi principali della campagna elettorale del settembre 2022 sono stati i giovani. I giovani che non votano.

Tanti politici hanno speso parole per convincerli a votare, soprattutto in campo di inserimento occupazionale, incentivi alle imprese che assumono, supporti alle start up, retribuzioni degli stage curriculari. Come se il problema e l’interesse dei giovani fosse solo quello del lavoro. Certo. È uno dei principali problemi. Ma in pochi partiti hanno voluto andare oltre. Il PD proponeva la conferma del bonus cultura 18App, introdotto dal Governo Renzi che dà, ad ogni neomaggiorenne, 500 euro da spendere in libri, concerti, giornali e altri eventi culturali. Tra i partiti che hanno vinto le elezioni, l’unico che ha speso parole in più rispetto al lavoro e allo sviluppo economico è stato il partito della premier. Fratelli d’Italia, infatti, aveva inserito, nel proprio programma, l’istituzione del «diritto allo sport all’arte e alla cultura» tramite investimenti diretti in strutture apposite. L’idea era quella di far si che tutti i giovani dovessero avere la possibilità di accedere a qualsiasi disciplina artistica e sportiva. Si parla di borse di studio per meriti sportivi ed artistici.

Non è cambiato nulla nemmeno questa volta

È vero che a Natale saranno passati solo 3 mesi dalla loro vittoria, ma mi sembra che possiamo già vedere quale sia la considerazione dei giovani da parte di questo Governo: introduzione della parola merito nel nome del ministero per l’Istruzione, l’introduzione del reato per chi «chiunque organizza e promuove l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici e privati, al fine di realizzare un raduno musicale o avente altro scopo di intrattenimento», fino alla sostituzione del bonus 18App con un nuovo strumento legato al reddito o al merito scolastico. A questi interventi si aggiunge la direttiva del ministero dell’Istruzione e del merito che proibisce l’uso del cellulare in tutte le scuole se non per uso didattico. Per il resto, nella legge di bilancio in discussione in questi giorni, non un soldo ai giovani (a meno che non vogliano essere assunti o che vogliano fare figli).

Ne esce una visione paternalistica, autoritaria tipica dell’estrema destra, dove i giovani devono essere formati nel rispetto dei valori tradizionali, si correggono con le punizioni e si premiano solo i migliori. Poi, siccome siamo bravi, diamo l’elemosina ai chi è povero, anche se non è bravo.

Prendiamo infatti la riforma del bonus cultura

La 18App era un bonus che veniva dato a tutti i maggiorenni. Un regalo che lo Stato faceva a tutti i nuovi cittadini. Una specie di benvenuto.

Ora, invece, lo otterranno solo i maggiorenni figli della classe medio bassa (Isee inferiore ai 35mila euro) oppure quelli che otterranno il massimo del punteggio alla maturità (esame che, di norma, viene dato quando i 18 anni sono già stati compiuti, anche da un anno).

Sparisce quel “ogni giovane”, e ci si limita a chi ha meno possibilità economiche, in un ottica in cui lo Stato si sostituisce alla famiglia. In questo caso non importa se vai bene a scuola o se bocci. Alla faccia del ministero del merito. Se invece fai parte del ceto medio alto, non hai diritto al bonus. Il bonus lo avranno solo i meritevoli. Anzi, solo i migliori. Per gli altri ci penserà la famiglia.

Il regalo, quindi, lo Stato, lo farà ai poveretti e a quelli bravi

C’è forse una visione classista del merito? Il merito vale solo per i più ricchi?

Per carità, non sto dicendo che il bonus deve essere dato solo ai meritevoli. La cosa bella della 18app è che era per tutti i giovani, senza nessuna distinzione. Come dire: siete tutti uguali. Avete tutti gli stessi diritti. Fatevi una cultura. E fatevela come volete. Senza che chi vi dà i soldi giudichi come li spendete.

Oggi appare invece come una mancetta per chi non ha i mezzi e un premio per chi ha i mezzi ed è bravo. Per gli altri, dovranno sottoporsi all’approvazione dei genitori.

L’uso dei cellulari in classe

La conferma di questa visione paternalistica e autoritaria è la circolare del ministro dell’Istruzione e del merito sull’uso dei cellulari in classe.

Il divieto assoluto per imposizione dall’alto. Come se ce ne fosse ancora bisogno. Se non fosse chiaro a tutti che l’uso del cellulare in classe, che non fosse per motivi scolastici, fosse una cosa inopportuna.

Come se non fosse chiaro che usare un qualsiasi strumento non legato alla didattica, durante la spiegazione, distragga dall’apprendimento. Che sia anche la penna per giocare a tris o per scarabocchiare. Ci aspettiamo quindi un divieto anche a questo uso? È in questo modo che vogliamo insegnare ai nostri figli l’uso dello strumento digitale, oppure l’educazione, per non parlare di come si sta attenti in classe?

I motivi del disinteresse

Personalmente, da genitore, da insegnante, da educatore, penso che se un ragazzo o una ragazza che frequenti una scuola superiore, si distragga dalla lezione, lo faccia, non perché abbia un cellulare in mano, ma perché non è interessato a quello che sta dicendo l’insegnante.

E questo accade per due motivi: non gli interessa la materia oppure l’insegnate risulta noioso. Ovviamente escludendo l’uso patologico del cellulare, che, appunto è patologico e deve essere, pertanto, curato.

In ogni caso, il togliergli il cellulare non aiuterà ad aumentare l’attenzione.

Il solito approccio

Non entro nel merito dei due casi, anche perché bisognerebbe capire se chi si annoia lo fa solo in una materia, o in tutte le materie, e se ad annoiarsi è solo uno/una studente/essa o, piuttosto, tutta la classe.

Resta il fatto che l’approccio è sempre quello: dovete fare quello che dicono i grandi, quando lo dicono i grandi, come lo dicono i grandi, perché lo dicono i grandi.

Personalmente, quando ero giovane, non ho mai capito perché dovessero aver per forza ragione i grandi, e, ora che sono grande, continuo a non capire.

Resta il fatto che questa situazione, di promesse fatte in campagna elettorali all’elettorato giovane, e poi la loro disattesa appena si entra a Palazzo Chigi, (che viene fatta da destra, sinistra e centro), è anche dovuta al rapporto che i giovani hanno con la politica, soprattutto nella, così detta, seconda Repubblica italiana: i giovani votano meno degli anziani. E votano meno perché chi governa non si occupa di loro, e chi governa non si occupa dei giovani perché i giovani non votano, e i giovani non votano perché chi governa non si occupa dei giovani, e così. Un circolo vizioso che va rotto!

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Giacomo Zucchelli
Giacomo Zucchelli, classe 1973, laureato in sociologia dell’organizzazione, del lavoro e dell’economia. Svolge la sua professione di formatore e consulente per le risorse umane in Toscana. Negli anni ha approfondito le tematiche della comunicazione relazionale, ha realizzato ricerca sociali legate alle relazioni tra gli individui con un’attenzione particolare alle ultime generazioni. Da sempre interessato alla politica e alla sua relazione con la vita reale

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