La zuppa del demonio: viaggio nel sogno italiano del progresso

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Presentato a Venezia il film documentario di Davide Ferrario

Cinema e mondo del lavoro. Un binomio che ha una storia antica, se si pensa che fra le prime riprese mai realizzate ci sono le immagini di operai che escono da una fabbrica. È il celebre La sortie de l’usine Lumière (1895), corto pionieristico girato dai fratelli Lumière, appunto. Nel corso del Novecento, in Europa e anche in Italia, i successi ottenuti nella corsa al progresso e alla modernità sono sempre documentati dall’occhio del regista. E non stiamo parlando dell’ironia e dello sguardo premonitore di Charlie Chaplin in Tempi Moderni, quando un Charlot operaio finisce negli ingranaggi della macchina, in fabbrica. Esiste un patrimonio di filmati aziendali che documentano con fierezza i risultati conseguiti in settori che per decenni sono stati avveniristici, dalla chimica all’elettronica, dall’industria automobilistica e a quella aerospaziale.

14834033220_147063e0b0_zIl docufilm La zuppa del demonio di Davide Ferrario, presentato ieri a Venezia alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, attinge proprio alle riprese conservate presso l’Archivio Nazionale del Cinema d’Impresa di Ivrea per condurre lo spettatore in un viaggio lungo quasi un secolo, dalla fine dell’Ottocento agli anni Settanta. Il titolo si ispira alla definizione coniata da Dino Buzzati nel commento a un documentario del 1964, in cui si descrivevano le lavorazioni dell’altoforno. Secondo Ferrario, la zuppa del demonio è «una formidabile immagine per descrivere l’ambigua natura dell’utopia del progresso che ha accompagnato tutto il secolo scorso».

Oggi l’industria pesante, le acciaierie e le raffinerie stanno chiudendo o riducendo la loro attività. Sono produzioni tendenzialmente poco redditizie che l’Europa delocalizza nei Paesi più poveri. Le fabbriche che chiudono lasciano spesso dietro di sé una scia di siti da bonificare e una massa di disoccupati da ricollocare. Quelle che restano, non godono di una buona immagine: chi vorrebbe avere alle porte di casa propria le emissioni potenzialmente inquinanti di grande complesso industriale?

Per decenni – ci racconta Ferrario, attraverso la selezione di filmati che compongono il suo docufilm – l’industria è stata sinonimo di vero progresso e di speranza in un futuro migliore. «Il progresso ha sempre ragione», diceva Filippo Tommaso Marinetti. Un principio che valeva alla Fiat che osannava, nel 1939, il Duce agli stabilimenti Mirafiori, quanto nell’Urss leninista, che esaltava i prodigi dell’elettrificazione. Un tema che torna anche nell’Italia del dopoguerra: i tralicci dell’alta tensione – oggi imputati di elettrosmog – sono l’incarnazione del progresso che arriva sotto forma di luce che scaccia le tenebre. Stupenda è l’immagine del pastore con la capra che si avvicina perplesso verso gli operai dell’elettrodotto: sono il passato e il futuro che si incontrano.

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L’Italia del dopoguerra ha i suoi nuovi eroi. Gli operai che nel 1959 costruiscono l’enorme diga del lago di Lei, al confine fra Italia e Svizzera, lottano contro la montagna e le sue insidie per domarla e far avanzare il progresso grazie all’energia idroelettrica. A Marghera, non c’è alcun contrasto fra il nuovo petrolchimico, emblema dei prodigi dell’industria, e la Venezia antica, ricca d’arte e di storia. I nuovi stabilimenti creano opportunità di lavoro, come avviene per esempio a Gela: la misera catapecchia in cui la famiglia di contadini siciliani convive con il somaro in cucina è sostituita da moderne case popolari per gli operai, che per la prima volta scoprono le vacanze e l’automobile. L’apogeo è a Ivrea, dove l’Olivetti crea un microcosmo ideale, in cui un capitalismo illuminato cerca di estendere il più possibile a tutti i suoi benefici. Da condizioni di lavoro meno alienanti – in fabbrica si lavora ascoltando Rossini –  alle abitazioni all’avanguardia per gli operai, gli asili e le biblioteche aziendali.

Ma a un certo punto, ci racconta il regista, il bel sogno inizia a incrinarsi. Superata la povertà si entra nella società dei consumi, dove l’imperativo diventa produrre e l’acquisto continuo di nuovi oggetti tramuta il lavoratore in un produttore di spazzatura. Inoltre, lo scempio ambientale e le malattie provocate dalle emissioni inquinanti finiscono per minare l’idea positivista della tecnologia e dell’industria in grado di migliorare all’infinito le condizioni dell’umanità, senza alcun prezzo da pagare. A questo si aggiungono gli effetti della crisi della globalizzazione e della crisi economica, che rendono molti settori non più competitivi.

14833951998_414f1a3b25_zResta il fatto, guardando il docufilm di Ferrario, che nella fase in cui viviamo – quella che sta trasformando molti dei nostri insediamenti produttivi in archeologia industriale – non si può non provare un velo di nostalgia per un’epoca in cui fabbrica, lavoro e speranza convivevano in un’apparente armonia. Un’era di fatica e di crescita senza la quale, al di là di tutto, non ci sarebbero l’Italia e l’Europa di oggi.

 

 

 

Maria Tatsos

Immagini tratte dal film La zuppa del demonio di Davide Ferrario, prodotto da Rossofuoco e Rai Cinema, distribuzione Microcinema, in sala dall’11 settembre 2014.

 

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Maria Tatsos
Giornalista professionista, è laureata in Scienze Politiche e diplomata in Lingua e Cultura Giapponese presso l'IsiAO di Milano. Attualmente lavora come freelance per vari periodici femminili, collabora con il Museo Popoli e Culture del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime) e con il Centro di Cultura Italia-Asia. Tiene corsi di scrittura autobiografica ed è autrice di alcuni libri, che spaziano dai diritti dei consumatori alle religioni asiatiche. È autrice del romanzo storico "La ragazza del Mar Nero" sulla tragedia dei greci del Ponto (2016) e di "Mai più schiavi" (2018), un saggio su Biram Dah Abeid e sulla schiavitù in Mauritania, entrambi editi da Paoline. Nel tempo libero coltiva fiori e colleziona storie di giardini, giardinieri e cacciatori di piante che racconta nel corso "Giardini e dintorni".

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