Roberto Bolaño e “Lo spirito della fantascienza”

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Esce l’inedito romanzo giovanile nel quale lo scrittore cileno prefigura le proprie ossessioni, evocando i fantasmi della storia europea e sudamericana

Nel magma labirintico che compone Lo spirito della fantascienza (Adelphi – traduz. di Ilide Carmignani), ultima perla emersa dalle profondità ancora in parte inesplorate della smisurata galassia Bolaño (1953-2003), si scorge un’aspirazione totalizzante, una volontà di raccogliere le macerie di un mondo in disgregazione, donandogli una forma che sia anche un argine all’oblio che costantemente lo minaccia. Se la vocazione enciclopedica e frammentaria è un tratto distintivo della narrativa postmoderna, lo scrittore cileno riesce nell’arduo compito di ritagliarsi al suo interno uno spazio del tutto peculiare.

L’appendice iconografica pubblicata alla fine del testo ci permette di sbirciare nel personale laboratorio di Bolaño, risultando illuminante riguardo i meccanismi del processo creativo. Si scopre così la presenza di un progetto strutturale solido, appena incrinato da quel tocco di imponderabilità che costituisce la sostanza della poesia. Perché i protagonisti della sua narrativa sono sempre poeti, uomini che cercano di dare un senso a quanto appare del tutto insensato mediante le parole.

E poi c’è quel sentimento costante di aver toccato territori inesplorati, sfuggiti persino ai grandi maestri del cosiddetto postmoderno (ben sapendo che ogni definizione è di per sé inadeguata e fallace). Da qui quel senso di una temporalità allargata, di una capacità a contenere l’infinito che rimanda all’insegnamento imprescindibile di Borges.

«Qualche secondo dopo, quando ancora non ero uscito dall’ombra del nostro edificio, o dalla trama d’ombre che ricopriva quel tratto, comparve la mia immagine riflessa nelle vetrine di Sanborns, strana copia mentale, […] e gli occhi, non i miei ma quelli che si perdevano nel buco nero della vetrina, rimpiccioliti come se di colpo avessero visto il deserto» (pg. 23), una frase che rende l’idea di come Bolaño riesca a rivitalizzare l’atavico tema del doppio, attualizzandolo e tingendolo di una qualità visionaria che ricorda le prove filmiche del primo Herzog. L’intera trama narrativa si rifrange in un gioco di specchi che adombra messaggi cifrati, interrogativi ai quali non è dato fornire risposta.

Perché nei libri di Bolaño, come in quelli di Thomas Pynchon, i protagonisti si imbattono continuamente in segnali incomprensibili, che si accendono e si spengono come «semafori seminascosti e corrosi dallo smog» (pg. 147). Il confine fra realtà e allucinazione appare labile, come in quel testo fondante della cultura postmoderna che è appunto L’incanto del lotto 49 dello scrittore americano, datato 1966, o ancora come negli enigmi filmici intessuti da David Lynch, intrisi di una sostanza onirica e sfuggente. Nulla è come sembra, e il dubbio che al di sopra di tutto vi sia un complotto a dirigere le nostre vite conferisce al testo una forza disturbante.

«Mi sentivo come intrappolato dentro una cartolina e al contempo assistevo paradossalmente al progressivo allontanarsi del paesaggio» (pg. 115), scrive ancora Bolaño, confermando la qualità visiva della sua scrittura, unita a una capacità unica di scompaginare le consuete coordinate sottraendo ai nostri sensi ogni certezza. Un virtuosismo stilistico che non è mai fine a se stesso, una maestria narrativa che commuove in quanto lascia sovente trasparire una malinconia tipicamente sudamericana.

Opera giovanile (la cui stesura può essere datata fra i primi anni Ottanta e il 1984) ma non immatura dunque, in grado di anticipare gran parte delle tematiche esposte successivamente. La sua ossessione per i giochi di guerra, che sarà trama del libro Il Terzo Reich, compare in alcune pagine come fatale tentazione di riscrivere la storia. Il war game è a sua volta una struttura narrativa, un luogo al di fuori del consueto scorrere del tempo. Fugaci allusioni al grande mattatoio del Secondo conflitto mondiale, o alla storia tragica del Sud America, garantiscono una dimensione più ampia alla frammentata trama del libro.

Tre diversi livelli narrativi si intersecano in perigliose tangenze. Il testo si apre con l’intervista a uno scrittore, al quale è stato conferito un premio letterario. Incubo e idillio si mescolano nella bizzarra trama del romanzo vincitore. Vengono in mente le parole di Calvino riguardo Georges Perec, per molti versi affine alla poetica di Bolaño, quella compresenza di ironia e angoscia che impregna la sostanza narrativa. Lo scrittore francese, fra l’altro, compare in un breve aneddoto nel quale sventa lo scontro fra due artisti d’avanguardia in un quartiere sperduto di Parigi. Interferenze disturbano l’intervista, mentre un qualcosa di mortifero infesta l’aria. Il corto circuito comunicativo appare completo. Lo scrittore, il quale ha sprecato la propria adolescenza fra cinema malsani e biblioteche infette è, in realtà, Bolaño stesso.

Così come il singolare e solitario Jan Schrella, le cui lettere indirizzate a noti scrittori di fantascienza costituiscono un ulteriore livello di lettura, non è che l’alter ego dello stesso autore. Nelle sue deliranti missive compaiono personaggi come Thea von Harbou, attrice moglie di Fritz Lang, la cui presenza evoca i fantasmi della minaccia nazista. Altrove balenano sogni apocalittici di esplosioni nucleari (incubo dei nordamericani), o i demoni inquietanti dell’America Latina, sottoposta all’aggressione continua di potenze imperialiste. Tutto si svolge sul baratro della follia, indotta dall’eccessivo consumo di fantascienza.

A tale proposito la curiosa proliferazione delle riviste dedicate a questo argomento nel DF (Distrito Federal) pone interrogativi insoluti. Un sintomo della rivoluzione per qualcuno, per altri semplicemente un indizio di tristezza. Le riviste appaiono sottili e patite come i corpi scheletrici dei campi di concentramento. L’ombra oscura del nazismo rappresenta una presenza costante, ora e nella futura evoluzione dello scrittore cileno.

L’ossatura più corposa della struttura narrativa è costituita dalla storia di Remo, compagno di stanza di Jan. Nelle sue bizzarre avventure troviamo l’embrione della mitologia creata ad esempio nei Detective selvaggi. Messaggi del destino vengono disseminati nella trama. Compito del protagonista accoglierli o ignorarli, cercando di districarsi nel disordine imperante.

Materiali eterogenei si mescolano in strane alchimie, aspiranti poeti tormentati da inquietudini senza nome solcano le pagine del libro, vaneggiano senza trovare una via d’uscita. Bolaño riceve dalle mani di Cortázar il gioco del mondo, e lo declina alla maniera propria. Molto bella l’ultima parte, l’unica non inedita del libro, dal titolo Manifesto messicano. I bagni pubblici dove Remo e l’amata Laura consumano ambigue esperienze, avvolti da nuvole di vapore che celano i corpi e le cose, svelandone solo capricciosi particolari, trasformano la realtà in mistero. Le conversazioni, a tal punto confuse da sembrare pronunciate in una lingua sconosciuta, perdono di senso. Il tempo si lacera, i colori mutano. Il bagno è uno spazio altro nel quale cose indubbiamente esistite si mostrano in forme indistinte.

Un senso di struggente nostalgia verso quanto è irrimediabilmente perduto, questa è forse la cifra più evidente dell’arte di Bolaño. Lo spirito della fantascienza appare allora come una partita a scacchi, un gioco della vita perennemente in bilico fra verità e apparenza, fra lucidità e follia. «Dimmi dove sono in realtà», chiede Jan a un certo punto raccontando di un sogno. «Dalla finestra entravano luci deboli, riflessi di edifici lontani o forse la pubblicità della birra Tecate che si accende e si spegne tutta la notte» (pg. 38). In queste intermittenze elettriche si svolge l’esistenza delle creature modellate da Bolaño. Personaggi che stanno affacciati a una finestra, osservando il bagliore di stelle distanti, consapevoli che la loro luce è solo l’immagine ingannevole di una vita estinta ormai da tempo.

Riccardo Cenci

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Roberto Bolaño

Lo spirito della fantascienza

Adelphi – pg. 206 – € 18,00

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Riccardo Cenci
Riccardo Cenci. Laureato in Lingue e letterature straniere moderne ed in Lettere presso l’Università La Sapienza. Giornalista pubblicista, ha iniziato come critico nel campo della musica classica, per estendere in seguito la propria attività all’intero ambito culturale. Ha collaborato con numerosi quotidiani, periodici, radio e siti web. All’intensa attività giornalistica ha affiancato quella di docente e di scrittore. Ha pubblicato vari libri (raccolte di racconti e romanzi). Attualmente lavora come Dirigente presso l’Enpam.

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