Quale futuro per le città nel libro “Coltiviamo il nostro giardino”

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Un volume pubblicato da DeriveApprodi prende spunto da un ciclo di incontri che hanno coinvolto architetti, paesaggisti e urbanisti

Foreste che bruciano, ghiacciai che si sciolgono, isole sommerse dagli oceani il cui livello continua a salire, aria sempre più irrespirabile. È questo lo scenario apocalittico del riscaldamento globale, purtroppo già in corso. Sul banco degli imputati, in prima fila ci sono gli agglomerati urbani, da quelli più piccoli alle metropoli più estese dove si addensano milioni di esseri umani. Il 60% della popolazione mondiale nel 2030 vivrà nelle città, che già oggi sono responsabili del 70% delle emissioni globali di anidride carbonica.

Limitare le sostanze inquinanti in agricoltura o nell’industria è doveroso, ma non basta. Occorre ripensare il nostro stile di vita, a cominciare dalle città. E qui un ruolo fondamentale è quello degli architetti, dei paesaggisti e degli urbanisti, chiamati in questo nuovo decennio a contribuire concretamente al cambiamento, con idee che influenzino il comportamento dei cittadini e l’azione degli amministratori.

In quest’ottica, un’interessante lettura è rappresentata dall’agile volume intitolato Coltiviamo il nostro giardino (pubblicato da DeriveApprodi), che racchiude alcuni contributi di un ciclo di incontri italo-francesi sul mondo di domani promossi dall’Ambasciata di Francia in Italia e dall’Institut Français Italia nel 2018.

Il titolo Coltiviamo il nostro giardino è una celebre frase tratta dal Candide di Voltaire ed è una chiamata collettiva di responsabilità. Dobbiamo tutti diventare giardinieri, piantare alberi e speranza, proteggere i nostri spazi verdi e impegnarci per ampliarli, perché questa è una condizione irrinunciabile per la sopravvivenza. «L’età dell’abbondanza» – ricorda Paolo Pileri, docente di Pianificazione e progettazione urbanistica al Politecnico di Milano – «è finita: un’era in cui potevano permetterci l’inazione davanti ai cambiamenti climatici, al degrado della bellezza dei nostri paesaggi e al crescere dei tumori per l’inquinamento delle nostre città. Occorre vedere l’ecologia non come appendice, ma come paradigma del prossimo progetto urbano».

Franco Panzini, architetto e storico del paesaggio, rammenta che l’industria delle costruzioni è responsabile per circa il 40% del totale dell’energia consumata annualmente e di quasi il 50% dell’anidride carbonica emessa, attraverso tutti i processi che innesca. Eppure, incuranti di questo, continuiamo a costruire. Consumiamo suolo: 14 ettari al giorno in Italia (dati 2018), mentre «le nostre città sono piene di aree dismesse, di edifici abbandonati e sottoutilizzati», sottolinea Pileri. La vera sfida nelle città del futuro è rigenerare, senza consumare un metro quadro di terreno inutilmente. Il suolo, ricordiamolo, è una risorsa scarsa. L’edificazione indiscriminata e selvaggia porta a «offuscare la distinzione fra città e periferia, tra campagna, spazio naturale e sobborghi», dice Mathieu Lucas, architetto e paesaggista. In molti luoghi del pianeta – Italia inclusa – trionfa lo sprawl, una città diffusa a crescita orizzontale di case, alternate a uffici e centri commerciali, e a bassa densità abitativa, in cui serve la macchina per qualsiasi movimento e dove un prato diventa sempre più un miraggio. La crisi economica ha ulteriormente modificato questo paesaggio, lasciandoci in eredità ruderi di capannoni industriali abbandonati, dove poco alla volta la natura tenta di riconquistare degli spazi.

È tempo di coinvolgere sempre di più i cittadini nella gestione della natura, anche lungo la rete viaria pubblica, per esempio, e non solo nei parchi o nei terreni abbandonati. Le docenti universitarie Catherine Carré e Fabiola Fratini ricordano esperimenti efficaci come Végetalisons Paris, in cui ci si fa assegnare online un’aiuola e semi offerti dal Comune per agire. E poi, i nuovi progetti urbani all’insegna della tutela del pianeta (turismo sostenibile, riuso di edifici, agricoltura sostenibile, riciclo, ecc.) possono generare, secondo Pileri, nuova occupazione. Il verde può e deve ricominciare a vivere al nostro fianco in città, per regalarci ossigeno, frescura (riduzione dell’isola di calore urbano) e luoghi di relax e svago. E, perché no, anche preziose opportunità di lavoro. Deve trovare una strada sostenibile: per esempio, di fronte alla scarsità idrica, è interessante rispondere con aiuole urbane che richiedono minore irrigazione, creando comunque spazi verdi piacevoli (come nella foto, a Milano).

Coltivare il nostro giardino non significa solo preoccuparsi del proprio terrazzo o del proprio fazzoletto di terra. Tutto il mondo è il nostro giardino, come afferma il grande paesaggista Gilles Clément, e solo lavorando insieme e contribuendo a un cambiamento radicale di mentalità possiamo salvarlo.

 

Maria Tatsos

Foto © Maria Tatsos, casa editrice DeriveApprodi

 

Coltiviamo il nostro giardino. A cura di Florence Ferran, Claudia Mattogno, Annalisa Metta. DeriveApprodi, pp.160, 15 euro

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Maria Tatsos
Giornalista professionista, è laureata in Scienze Politiche e diplomata in Lingua e Cultura Giapponese presso l'IsiAO di Milano. Attualmente lavora come freelance per vari periodici femminili, collabora con il Museo Popoli e Culture del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime) e con il Centro di Cultura Italia-Asia. Tiene corsi di scrittura autobiografica ed è autrice di alcuni libri, che spaziano dai diritti dei consumatori alle religioni asiatiche. È autrice del romanzo storico "La ragazza del Mar Nero" sulla tragedia dei greci del Ponto (2016) e di "Mai più schiavi" (2018), un saggio su Biram Dah Abeid e sulla schiavitù in Mauritania, entrambi editi da Paoline. Nel tempo libero coltiva fiori e colleziona storie di giardini, giardinieri e cacciatori di piante che racconta nel corso "Giardini e dintorni".

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