La piccola Gerusalemme di Pitigliano e il campo di Roccatederighi

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Nel 1938 la comunità ebraica del comune toscano contava circa 70 persone ma diminuì per le leggi razziali. Oggi si contano poche unità testimoni e custodi della memoria

La storia che racconteremo non è molto nota, è una storia molto italiana nella sua drammaticità e deportazione che ha riguardato gli ebrei che vivevano a Pitigliano, paese situato a pochi chilometri da Grosseto. Nel XVI secolo Pitigliano apparteneva alla piccola contea governata dai conti Orsini ed era ubicata tra il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio.

Nel 1569 alcune famiglie ebree cacciate dal Papa si rifugiarono in questa località ove già viveva il medico ebreo David De Pomis al servizio del conte Nicolò Orsini. Grazie all’interessamento di questo insigne medico, già nel 1576 si contavano sei famiglie ebraiche che aumentarono di numero quando arrivarono comunità espulse da Firenze e poi dalla Tuscia viterbese. Nel 1598 è documentata la presenza di una sinagoga in questo territorio con molti ebrei che vi dimoravano, dopo la distruzione di Castro, da parte delle truppe di Papa Innocenzo X.

Gli Orsini non si opposero mai all’aumentare della comunità ebraica in quanto questi erano detentori di grandi ricchezze e potevano supplire alla carenza di denaro della contea. Nel 1608 con la caduta degli Orsini, e l’avvento dei Medici gli ebrei furono segregati nel Ghetto istituito nel 1622. Fu il Granducato dei Lorena a far ritrovare la libertà alla comunità ebraica di Pitigliano che nel 1829 ricevette la visita del Granduca di Toscana Leopoldo II e una targa nella sinagoga lo attesta.

Nel 1860 vivevano circa quattrocento ebrei un numero elevato, per quel territorio e il paese si meritò l’appellativo di “Piccola Gerusalemme”. Molti, dopo l’Unità d’Italia emigrarono verso Livorno, Roma e Firenze. Fu durante le persecuzioni della seconda guerra mondiale che i 30 ebrei rimasti a Pitigliano sfuggirono alle truppe tedesche che li rastrellavano, e furono aiutati e salvati grazie all’intervento di numerose famiglie cattoliche che li nascosero e li protessero nei casolari di campagna. Coloro che furono intercettati dai tedeschi o dalla milizia furono postati in un campo di concentramento ubicato in un piccolo centro della Maremma di 800 abitanti, Roccatederighi.

Le leggi razziali del 1938 avevano fatto destituire dai loro incarichi, docenti, professionisti, pubblici impiegati. Il 28 novembre del 1943, due giorni prima del decreto ufficiale del ministro Buffarini Guidi che istituiva i campi di concentramento per gli ebrei come primo passo della deportazione, il prefetto Ercolani, competente per la provincia di Grosseto, individuò in Roccatederighi a 500 metri di altitudine con un paio di strade e un borgo medievale, in un edificio che domina un magnifico scorcio della Maremma, il luogo ove confinarli. Ma quanti erano in Italia all’epoca gli ebrei?

I dati di un censimento fatto nel primo semestre del 1938 sono imprecisi. I dati furono riportati nei giornali dell’epoca e si tratta di valutazioni numeriche discordanti. Per alcuni gli ebrei presenti nel Regno erano 56.400, per altri 47.825, altro dato parlava di 45.300 e riguardava persone sia italiane che straniere presenti stabilmente e comunque legate all’ebraismo. Nel censimento del 1938 la presenza ebraica nel Grossetano era di 149 persone. Ritornando al campo di Roccatederighi, il prefetto individuò l’edificio nel Seminario estivo vescovile della Curia di Grosseto e il contratto di affitto fu firmato dal monsignor Paolo Galeazzi vescovo del capoluogo.

Il canone per l’affitto fu fissato in 5.000 lire dell’epoca al mese (oggi corrispondenti a 25 euro) e includeva l’opera di cinque suore “adibite a cucina, dispensa, guardaroba e infermeria mentre per le pulizie e la legnaia venivano messe a disposizione due uomini di fatica”. Il personale avrebbe avuto il vitto del campo e uno stipendio di 300 lire mensili per ogni suora e 600 lire per gli uomini. Nella cucina, dice il dettagliato contratto, ”sono comprese le stoviglie,  l’impianto elettrico con un trasformatore proprio, fornito di lampadine il tutto con obbligo di consegna entro un mese dalla chiusura del campo”.

Il prefetto poi nominò un comandante del campo, peraltro con reticolato, nella persona di un sottufficiale di pubblica sicurezza e la sorveglianza affidata a tre poliziotti. Quella esterna era affidata a 20 militi con un ufficiale muniti du due mitragliatrici e fucili mitragliatori. Il capo della provincia prelevò 100.000 lire dalla cassa prefettizia che avrebbe reintegrato con il “ricavato dei beni mobili e immobili e pertinenza degli ebrei internati”. Ci sono testimonianze di internati che riferiscono di «assistenza spirituale sia del vescovo che delle suore che in certo qual modo alleggerivano il peso della detenzione». Furono 80 le persone internate nel seminario estivo vescovile, 41 erano italiani e 39 gli stranieri. 7 poi furono rilasciati per ragioni di salute o perché troppo anziani.

Con l’avvicinarsi a inizio del 1944 degli alleati il capo della provincia chiese dove trasferire i 64 ebrei rimasti. Fra l’aprile e giugno del 1944 più della metà degli internati di Roccatederighi fu trasferita al nord in altri campi. Gli ebrei che si salvarono furono quelli del posto, in quanto attorno ad essi si era costituita una “rete solidale” che comprendeva alcuni militi i quali compilavano le liste di quelli da deportare. 33 persone finirono ad Auschwitz e di queste solo 4 sopravvissero. Gli altri rimasti nel campo fuggirono, quando all’arrivo degli alleati, nella zona, tutti i militi sorveglianti scomparvero in una notte. Ma ce ne sono altri 13 che non partirono per la Germania e dei quali non si è saputo più nulla.

Nel settembre del 1944 con la provincia di Grosseto ormai liberata, il vescovo scrisse al prefetto di Grosseto per ottenere il pagamento dell’affitto scaduto del Seminario, il versamento degli arretrati alle suore e agli uomini di fatica e il risarcimento dei danni. Gli fu risposto che la richiesta non poteva essere accolta perché “mancava la registrazione della Corte dei Conti”. Ancora una volta aveva vinto la imbelle burocrazia italiana, a distanza di 76 anni  ancora vigente.

 

Giancarlo Cocco

Foto © Giancarlo Cocco

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Giancarlo Cocco
Laureato in Scienze Sociali ad indirizzo psicologico opera da oltre trenta anni come operatore della comunicazione. Ha iniziato la sua attività giornalistica presso l’area Comunicazione di Telecom Italia monitorando i summit europei, vanta collaborazioni con articoli sul mensile di Esperienza organo dell’associazione Seniores d’Azienda, è inserito nella redazione di News Continuare insieme dei Seniores di Telecom Italia ed è titolare della rubrica “Europa”, collabora con il mensile 50ePiù ed è accreditato per conto di questa rivista presso la Sala stampa Vaticana, l’ufficio stampa del Parlamento europeo e l’ufficio stampa del Ministero degli Affari Esteri. Dal 2010 è corrispondente da Roma del quotidiano on-line delle Marche Picusonline.

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