Elezioni europee: oltre la crisi

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L’Europa si trova in un momento di grande difficoltà come mai era accaduto dopo il secondo conflitto mondiale. La gravita della situazione deriva dal fatto che la crisi economica che perdura dopo l’importazione della crisi finanziaria dagli Stati Uniti ha travolto mano a mano molti Paesi europei generando un cortocircuito sociale senza precedenti. Ancora oggi, dopo oltre cinque anni, continuano a chiudere centinaia di aziende strozzate dal cappio creditizio, molti sono gli Stati sull’orlo del collasso forzati al rispetto diktat del 3%, col fiscal compact in agguato e la disoccupazione che ha raggiunto picchi inaccettabili, in particolare colpendo le nuove generazioni dei Paesi del Sud dell’Europa, Grecia e Spagna su tutti. Una situazione esplosiva dalle conseguenze imprevedibili.

Non c’e’ dunque da stupirsi se la disaffezione verso la politica sia generalizzata e abbia raggiunto, investendo indistintamente tanto la sfera nazionale che europea, livelli inimmaginabili solo qualche anno fa, con rischi ormai concreti di derive populiste o di contrasto a prescindere verso l’Europa, solo ieri accolta con favore o con pura indifferenza. E avversata perché oggi “responsabile” dei vincoli, delle imposizioni o dei sacrifici “chiesti da Bruxelles”. Un substrato perfetto per movimenti euroscettici che, a ragione o a torto, fanno delle cosiddette “colpe dell’Europa”, come se l’Europa non fosse poi la sommatoria di Stati nazionali, il loro modo di esistere e trovano seguito, e parziale giustificazione, in molti Paesi europei, sia quelli del Sud dell’Europa, stanchi del rigore a tutti i costi, che quelli del Nord, stufi degli “spendaccioni” senza vincoli dei Paesi del Sud. Un altro fattore determinante e destabilizzante è l’astensionismo che avanza minaccioso alla viglia elle elezioni del Parlamento europeo. Un chiaro sentore della disaffezione e del disinteresse di molti cittadini europei in particolare verso le istituzioni di Bruxelles, colpevoli, a torto o a ragione, di non fornire risposte concrete alle preoccupazioni dei cittadini.

Ma guardando bene fra le righe dei più recenti sondaggi, se a un primo sguardo appare forte la disaffezione verso l’Europa, emerge chiaro come la stessa sia vista come l’unica risposta credibile, praticabile e sostenibile, in particolare per Paesi in difficolta come il nostro. Nel sondaggio dell’agenzia Demos pubblicato il 10 marzo scorso da Repubblica emerge che, seppur in Italia la fiducia verso l’Unione europea sia scesa al 29% e solo il 29% si dichiara a favore dell’Europa, in un’indagine pubblicata lo scorso novembre da Eurobarometro, l’80% degli italiani dichiari che l’Unione europea non risponde ai bisogni dei cittadini e il 64% che l’Europa non faccia abbastanza per creare posti di lavoro. Non e’ questo un chiaro segnale della necessita di più Europa, di un’Europa diversa e più incisiva, attenta davvero ai bisogni della gente? Del bisogno di riforme istituzionali che diano più incisività all’azione dell’Ue ormai funzionante con regole che hanno presto superato le migliorie del Trattato di Lisbona e comunque l’unica alternativa di sopravvivenza e azione nei campi dove i singoli Stati nazionali possono solo fallire? Sempre nello stesso sondaggio la maggioranza degli italiani si dichiarava contrario dall’uscita dall’euro (68%), favorevole a proseguire l’integrazione europea (60%) ed era propensa alla creazione di un vero ministero delle finanze europeo (60%). Anche il Parlamento europeo, pur se in leggero calo di popolarità, generava tre volte maggior fiducia rispetto alle Istituzioni italiane.

Pur se in un contesto diverso, un’anteprima preoccupante era andata in onda un anno fa in occasione delle prime elezioni europee in Croazia, preludio poco incoraggiante all’adesione all’Ue. In quell’occasione  l’asticella della partecipazione elettorale si era fermata a poco piu del 20%. Un cortocircuito che rischia di fatto di trasformarsi in un circolo vizioso letale se l’Europa non riuscirà rapidamente ad invertire il trend dando soluzioni durevoli a temi come l’occupazione, il credito alle aziende, l’energia, la sicurezza o l’immigrazione. Poco importa se la colpa sia degli Stati nazionali o del congiunto dei 28 Stati europei, se più o migliore Europa sia la strada giusta per la salvezza o se l’apparente ancora di salvataggio proposta dai fautori nella necessita tout court di “meno Europa” o del ritorno alla moneta nazionale rappresenti la soluzione a tutti i nostri problemi o ci conduca dritti dritti nel baratro. Dal 1979 il tasso di partecipazione alle elezioni europee, pur calando in linea generale, ha subito importanti variazioni nei diversi Stati membri. Se prendiamo, infatti, l’ultima tornata elettorale del 2009, il trend di partecipazione generale aveva segnato un incremento in paesi come la Danimarca, la Germania, l’Irlanda, la Finlandia, l’Austria o la Svezia. Ma in altri come Repubblica Ceca, Lituania, Polonia, Romania o Slovenia la partecipazione era crollata in media fino al 30%. Non è certo una scusante consolante ma occorre notare come anche se il trend di partecipazione al voto delle elezioni europee sia stato negli anni in costante ribasso, con il picco massimo del 1970 a quota 62% quando il Parlamento europeo non era ancora eletto direttamente dai cittadini europei, al punto minimo raggiunto nel 2009 con il 43%, le cifre della partecipazione non si sono di regola discostate dai trend delle elezioni nazionali e regionali, anch’esse colpite dalla disaffezione e dal generale declino delle democrazie occidentali. Se guardiamo le ultime elezioni americane, la partecipazione si era attestata sotto quota 50%. Ma attenzione a non fare di tutta l’erba un fascio e parlare per semplicità indistintamente d’Europa. Il Parlamento europeo da anni chiede che i cittadini e non le banche siano i primi ad essere aiutati in questa crisi. Che è necessario affiancare alla disciplina di bilancio, pur necessaria, un fondo di redenzione del debito europeo che permetta una mutualizzazione di gran parte dei debiti pubblici nazionali, favorendo cosi gli investimenti per il rilancio economico. O l’imprescindibilità di una vera Banca Centrale europea che operi al fianco degli Stati e dei cittadini, favorendo investimenti nella crescita, nella ricerca e misure strutturali contro la disoccupazione, in particolare giovanile. Nella legislatura appena terminata il Parlamento europeo ha a più riprese chiesto agli Stati membri misure concrete ad esempio per proteggere i cittadini dai fallimenti bancari, definendo ulteriori passi verso una vera politica monetaria a sostegno della moneta unica o chiedendo una tassa sulle transazioni finanziarie a sostegno dell’economia reale. Richieste raccolte tardivamente o solo parzialmente, come per il caso dell’Unione bancaria ancora in discussione nei palazzi di Bruxelles e delle capitali europee. Si pensi oppure al giudizio negativo sull’operato della Troika – la cui struttura e metodi di lavoro, secondo il Parlamento europeo – pur evitando il peggio, ha ostacolato “l’appartenenza” nazionale compromettendo trasparenza e responsabilità, con impatti neutralizzatori sulla riprese e addirittura negativi sull’occupazione. Ecco l’evidenza ulteriore che occorrono politiche di investimento produttivo e di rilancio della competitività per le nostre aziende, rompendo una volta per tutte il tabu di regole e parametri definiti vent’anni orsono e rivelatisi un cappio anacronistico letale da applicare indistintamente a tutti gli Stati dell’Unione europea. Un po’ come pretendere di risolvere il raffreddore e un infarto con la stessa cura senza pensare agli effetti collaterali e alle controindicazioni sul potenziale paziente, sia esso greco, francese, portoghese, italiano o spagnolo. Non scordiamoci che è bastata una malattia “non convenzionale”, lo shock finanziario globale, a mettere a dura prova le esili fondamenta della in apparenza “ridente casa europea”.

Non ci sarà una prova d’appello, questo è il momento di agire. L’esempio degli Stati Uniti conferma che c’è ancora tempo per risalire la china pur se manca poco al time out. Proprio loro che avevano pagato a duro prezzo la crisi generata in casa con i mutui subprime, sono riusciti a far ripartire in tempi relativamente brevi la propria economia limitando i danni grazie a un intervento diretto della Federal Reserve e misure strutturali ad hoc. Pur se Usa e Europa non sono confrontabili, nulla vieta di auspicare un cambio strutturale e decisionale dell’Unione europea prima che sia troppo tardi. Le lungaggini e le indecisioni unite al potere di veto che ancora oggi alcuni Stati esercitano nel processo decisionale europeo è un prezzo che l’Europa non può più permettersi. Chi ritiene sia meglio che il proprio Stato prosegua il cammino da solo, indica un referendum e scelga il proprio futuro. Chi vuole maggior e migliore integrazione vada avanti con le riforme.

Pur con i cambiamenti importanti sopraggiunti nel 2009 con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, è infatti chiaro a tutti che le competenze, le politiche, le responsabilità e le strutture a disposizione oggi dei singoli Stati membri e dell’Unione europea non permettano di mettere in campo risposte rapide, efficaci e sostenibili. La metafora del gigante incatenato utilizzata dall’attuale Presidente del Parlamento europeo Martin Schulz nel suo ultimo libro sintetizza bene la situazione, un grido contro le catene che i Governi nazionali tentano di stringere attorno al Parlamento europeo e l’Unione europea in generale. In un’Europa a rapido invecchiamento e in un mondo sempre più interconnessa e globalizzato, dove altri attori internazionali sono concorrenti alla stessa stregua e global player, è evidente come alcune risposte possano essere efficaci e benefiche in termini di lavoro, competitività, e sostenibilità solo se date da tutti gli Stati europei assieme. Il prezzo da pagare è ovviamente parte della sovranità nazionale ma è l’unico viatico possibile guardando a un futuro ancora prospero e in pace. Ecco perché l’Unione europea, certamente riformata e più democratica, in cui il Parlamento europeo e i suoi cittadini siano un elemento centrale di decisione, rappresentino la risposta piu credibile per dare risposte efficaci che gli Stati nazionali da soli non possono fornire. Un’Europa certo meno burocratica, come d’altronde dovrebbero tendere tutte le strutture politiche e istituzionali nazionali, un’Europa più politica, un’Europa che non si occupi più delle decisioni meglio gestibili localmente che rafforzano la diversità del continente europeo ma affronti unita le sfide della globalizzazione forte del suo peso economico e dell’incredibile potenziale del suo mercato interno ancora non sfruttato appieno. Penso al campo dell’approvvigionamento energetico, della politica economica e monetaria, dell’ambiente, della politica estera o dell’immigrazione. Tutti campi per cui andrebbero ridefinite subito le competenze, le politiche e gli strumenti al fine di rafforzare l’impatto dell’azione europea, lasciando al livello nazionale la risoluzione e gestione di problematiche locali nel rispetto del principio di sussidiarietà. La coerenza interna europea e il suo peso internazionale sono infatti intrinsecamente connessi, l’attrazione economica e la governance politica sono le facce della stessa medaglia[1]. Non si tratta di mettere in discussione il modello sociale di mercato europeo o il principio di solidarietà fra i vari membri dell’Ue, principio che fa dell’Unione europea un modello unico al mondo, ma rivederne i meccanismi di funzionamento, rappresentanza e decisione, con una piu netta divisione fra nazionale ed europeo, per ottenere risultati migliori.

E’ comunque quantomeno curioso notare come quando le cose vanno male la colpa sia dell’Europa, quasi fosse una matrigna astratta senza un volto concreto, un’entità esterna i cui demoni presunti non siano poi proprio quegli Stati membri che la incolpano quando le cose vanno male o quando debbono giustificare scelte nazionali inappropriate. Tutt’altro copione quando si tratta di successi, dove i meriti sono ovviamente sono appannaggio di questo o quel capo di Governo nazionale. In questo contesto in divenire, l’appuntamento elettorale del prossimo 25 maggio rappresenta una svolta storica per favorire la messa in pratica di tutte queste risposte, dando un’accelerazione decisiva. Favorire il cambio di passo con una maggiore trasparenza e responsabilità politica per chi ci governa, grazie all’eccezionalità di un appuntamento elettorale che per la prima volta conferisce un potere diretto ai cittadini per scegliere quale direzione debba prendere l’Unione europea eleggendo a suffragio universale sia i 751 deputati del Parlamento europeo che il nuovo Presidente della Commissione europea. Quest’ultimo non sarà infatti più scelto nelle segrete stanze delle cancellerie politiche nazionali ma risulterà indirettamente dalla maggioranza della tornata elettorale e direttamente – per la prima volta – dall’elezione del Parlamento europeo. Come recita il Trattato di Lisbona, infatti, il prossimo luglio la maggioranza dei membri del nuovo Parlamento europeo (almeno 376 su 751) – dopo la proposta dei capi di Stati e Governo nazionali – eleggeranno il Presidente della Commissione europea. Passaggio fondamentale questo perché se i capi di Stato e Governo non dovessero tener conto del risultato del 25 maggio e presentassero al voto un candidato “uscito dal cilindro” sarebbe probabile la bocciatura dell’Aula in attesa di un altro candidato più rappresentativo.

Una tornata elettorale in cui per la prima volta i temi “nazionali” si intrecciano a doppio filo con quelli “europei” e in cui i candidati nazionali possono riferirsi anche al programma deciso su base europea dai gruppi politici europei e rappresentato dai vari candidati unici che i principali 5 gruppi hanno scelto su base europea. Su 13 partiti politici europei, cinque hanno nominato un candidato per sostituire l’attuale presidente della commissione.  Jean-Claude Junker per la famiglia popolare, Martin Schulz in rappresentanza dei socialisti e democratici, Guy Verhofstadt per l’Alleanza dei liberali e Democratici per l’Europa, Alexis Tsipras per il rensamblement di sinistra “L’altra Europa”, Marine Le Pen alla guida del gruppo di destra “Alleanza Europea per la Libertà” o José Bové e Ska Keller, coppia capolista dei Verdi Europei. Dei volti che stanno di fatto umanizzando la campagna elettorale, dando spazio a dibatti e confronti televisivi come quello trasmesso in diretta il 15 maggio in prima serata su Rainews24. Un modo per aumentare il coinvolgimento dei cittadini europei avvicinandosi alla formula utilizzata nei confronti nazionali sulla scia dei confronti politici in America. Un primo assaggio di quello che potrebbero divenire nel futuro, quando magari in campo ci saranno liste transnazionali, dei veri e propri confronti europei. Per la prima volta possiamo chiedere ai candidati preventivamente quale Europa hanno in mente, quale misure metteranno in campo se eletti per rafforzare il continente. Vederli in televisione in confronti politici in diretta su scala europea mai realizzati sino ad ora ci aiutera a capire meglio le ragioni della nostra scelta elettorale.

Qualora il candidato presentato al Parlamento europeo non dovesse raggiungere i numeri per essere eletto, il Consiglio europeo, ovvero il consesso dei 28 capi di Stato e governo dell’Unione europea, con un voto a maggioranza qualificata, avrà un ulteriore mese per riproporre al Parlamento un nuovo candidato. Inutile dire che per non perder tempo prezioso evitando di riproporre a settembre un altro candidato al Parlamento europeo il Consiglio europeo dovrà subito presentare un candidato che rispecchi la maggioranza politica relativa al Parlamento europeo in base al voto del 25 maggio. Forse questa tornata elettorale rappresenterà l’inizio della fine in cui l’Europa non sarà più sistematicamente il capro espiatorio dei mali nazionali. Una volta eletti i deputati confluiranno infatti in un gruppo europeo con un programma precedentemente condiviso e dovranno votare coerentemente nella maggioranza dei temi, condividendo scelte che travalicano il semplice essere “a favore” o “contro” l’Europa o a “favore” o “contro” l’euro. Sara la cartina di tornasole per verificare la veridicità delle proposte dei vari schieramenti rispetto alle promesse della campagna elettorale. Chi non deciderà di schierarsi, tenendosi teoricamente le mani libere per la scelta più opportune dopo le elezioni, darà un chiaro segnale di opacità e opportunismo che l’elettorato potrebbe per la prima volta punire severamente.

Dopo la consultazione elettorale e la formazione a giugno dei gruppi poltici e delle relative maggioranze al Parlamento europeo, dovrà emergere la nuova maggioranza politica. Una nuova maggioranza determinante questa volta nell’influenzare il destino dell’Europa – quella della sussidiarietà spinta, delle autonomie, delle competenze condivise, ecc… – determinate rispetto alla scelta delle priorità politiche e legislative che metterà in campo la Commissione europea dal 2014 al 2019. Una Commissione che sempre di più assomiglia a un vero “esecutivo” europeo. Sarà un voto diverso anche perché il Parlamento europeo da cinque anni è di fatto colegislatore a tutti gli effetti con il Consiglio dei ministri e decide per circa l’80% della legislazione europea,  lasciando ai Parlamenti nazionali il compiti dell’implementazione legislativa. Come ad esempio per la definizione delle regole della concorrenza, per la politica commerciale comune o la politica monetaria per quegli Stati membri la cui moneta è l’euro. Ci sono inoltre tutta una serie di settori, si pensi ai trasporti, all’agricoltura, all’energia, all’ambiente o alla politica dell’immigrazione, in cui il Parlamento europeo ha una competenza condivisa con quella degli Stati membri. Un potere di scelta democratica “rafforzata” di cui usufruiranno i quasi 38 milioni di elettori che saranno chiamati per la prima volta a votare l’Europarlamento.

Non votare oggi alla elezioni europee e comunque dopo averlo fatto a quelle nazionali è come far scendere in campo una squadra di calcio e non ripresentarla nel secondo tempo. Inutile infatti scegliere chi dovrà guidarci a livello nazionale se poi non esercitiamo lo stesso diritto a livello europeo e facciamo scegliere altri cittadini chi negozierà e deciderà per questo o quel provvedimento il cui un impatto diretto ricadrà sulla nostra vita quotidiana. Per la prima volta il Parlamento europeo sarà centrale nella definizione del processo decisionale europeo. Un Parlamento che rafforza cosi le già incrementate competenze in termini di bilancio, diritto d’iniziativa, inchiesta e petizione, oltre alle funzioni di controllo sulle altre Istituzioni europee come la Banca centrale. Per la prima volta queste elezioni vedranno inoltre una politicizzazione della tornata elettorale, spesso puro metro di riferimento del consenso politico nazionale. I partiti politici avranno infatti il loro punto di riferimento unico, il candidato che correrà per guidare la Commissione europea dall’ottobre prossimo con un manifesto politico chiaro. Una differenza centrale che marcherà con ogni probabilità il vero inizio di un’Europa più politica e una differenza di manovra rispetto dall’attuale Commissione guidata dal Presidente José Manuel Barroso.

Come sarà il Parlamento europeo dopo il 25 maggio? Quale maggioranza emergerà dal confronto elettorale e quali saranno le alleanze per legiferare? Per un confronto che si prospetta serrato e per la sua transnazionalità rimane difficile avanzare risposte definitive. Grazie all’opinione pubblica nei vari Stati membri, il Parlamento europeo e TNS Opinion hanno messo a punto un sistema di rilevazione che sta facendo il punto su base settimanale rispetto alle proiezioni dei seggi del prossimo emiciclo. Non si tratta ben inteso di sondaggi sulle intenzioni di voto, ma di un quadro generale rispetto alla situazione dell’opinione pubblica negli Stati membri in vista delle elezioni europee. La composizione finale e ufficiale del nuovo Parlamento europeo sarà disponibile solo  durante la sessione costitutiva che si terra a Strasburgo dall’1 al 3 luglio 2014. Questa proiezione di seggi del Parlamento europeo è basata su una raccolta settimanale non esaustiva dei sondaggi europei e nazionali dei 28 Stati membri dell’Unione europea. I seggi di ogni partito in ogni Stato membro sono calcolati considerando le leggi elettorali nazionali. Le proiezioni sono basate sulla media degli ultimi due o tre sondaggi disponibili in ogni Stato membro, quando non sono meno recenti di 14 giorni e solo quando le date del sondaggio è nota. Quando il calcolo della media non è possibile, viene utilizzato solo l’ultimo sondaggio europeo o nazionale disponibile[2]. I partiti che appartengono a un gruppo politico del PE o che sono membri del partito politico europeo corrispondente vengono automaticamente inclusi nel gruppo politico uscente. I deputati attualmente appartenenti ai non iscritti sono automaticamente inclusi nella categoria non iscritti, qualora rieletti.

I partiti che devono determinare ancora la propria affiliazione sono automaticamente inclusi nella categoria “altri”, equamente divisa tra destra e sinistra dell’emiciclo per evitare qualsiasi disequilibrio politico. Ogni Stato membro ha le proprie leggi elettorali e ciascuno ha stabilito le date in cui i cittadini andranno alle urne durante il periodo elettorale di quattro giorni compreso fra il 22 e il 25 maggio 2014. Gli elettori italiani voteranno domenica 25 maggio per eleggere i 73 deputati italiani. I risultati di tutti i 28 Stati saranno annunciati la sera di domenica 25 maggio dopo la chiusura alle 23 dei seggi in Italia. Pur se a seguito dell’adesione della Croazia all’Unione europea lo scorso luglio i deputati al Parlamento europeo sono diventati 766, questo numero è stato ridotto a 751 e rimarrà allo stesso livello in futuro. I seggi sono ripartiti tra i vari Stati dai trattati dell’UE secondo il principio di “proporzionalità decrescente”, in base al quale i Paesi con una maggiore consistenza demografica dispongono di più seggi rispetto ai Paesi meno popolosi. Questi ultimi hanno comunque più seggi di quanti sarebbero previsti applicando strettamente il principio di proporzionalità.

Dagli ultimi sondaggi effettuati nei vari Paesi europei[3] e pubblicati venerdi 16 maggio si prefigura un testa a testa di pochi seggi fra il gruppo del partito popolare europeo e quello dei socialisti e democratici – 27 seggi di differenza appannaggio del PPE. Assieme conterebbero appena sopra il 55%. I gruppi dell’Alleanza europea per la liberta, che sta risalendo nei sondaggi, come dei Verdi Europei, dovrebbero ricevere meno seggi rispetto al 2009, mentre il gruppo della sinistra europea GUE dovrebbe incrementare la propria presenza. Altro incremento sostanziale quello dell’estrema destra (al momento attorno al 6%), mentre la schiera dei cosiddetti “anti-europei” dovrebbero accaparrarsi oltre il 10%. Data la disomogeneità dei dati in particolare per gruppi politici nuovi che potrebbero nascere da questo confronto elettorale, sono evidentemente incerti gli scenari rispetto a scenari netti e definiti come negli anni passati. Potrebbe ad esempio emergere un gruppo ex-novo dalle cifre importanti o un rafforzamento dell’attuale gruppo euroscettico EDF. In entrambe le ipotesi, l’unica certezza è che rimanere separati significherebbe non essere capaci di incidere nel lavoro legislativo del nuovo Parlamento. Ma dati i criteri minimi di formazione dei gruppi, almeno 25 deputati provenienti da almeno sette Stati (al momento un quarto degli Stati membri), l’impresa non appare scontata.

Esiste poi un interrogativo centrale legato alla crescente percentuale, al momento sopra il 10%, di chi ancor oggi non è presente al Parlamento europeo e potrebbe determinare uno spostamento decisivo per le alleanze di maggioranze. Si pensi su tutti all’entrata del Movimento 5 Stelle. Vista la complessità e multiformità del nuovo emiciclo, il nuovo Parlamento potrebbe anch’esso aver bisogno di nuove maggioranze del tipo “Grosse Koalition” tedesca. Come ad esempio la cosiddetta “coalizione costituzionale”, ovvero l’unione di quei gruppi che hanno votato in favore del Trattato di Lisbona (525 eurodeputati votarono a favore del Trattato), una “grande coalizione” forte di oltre 100 membri sopra il tetto necessario della soglia dei 376 della maggioranza qualificata, necessaria ad esempio per adottare le legislazioni in seconda lettura o eleggere lo stesso Presidente del Parlamento europeo. O la “coalizione conservatrice”, formata dal gruppo del PPE, dell’ALDE e dell’ECR stimata al 50%, o quella cosiddetta “delle liberta civili” di sinistra capeggiata dal gruppo S&D assieme all’ALDE, alla GUE e ai Verdi, per un totale che non raggiungerebbe il 50%. Chiaro è che la nuova maggioranza politica che emergerà domenica 25 maggio assieme alla nuova Commissione europea in pista dal prossimo novembre e legata politicamente a doppio braccio all’Assemblea di Strasburgo, sarà per la prima volta decisiva nell’adozione di leggi per i prossimi cinque anni in settori di impatto diretto nella vita degli oltre 500 milioni di cittadini europei.

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Andriko Mouapesi
Economista di formazione e giornalista iscritto dal 2005 all'elenco pubblicisti. Freelance per diversi media collabora attualmente con diverse testate online in particolare su EU affairs.

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