Terre rubate alla terra

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Il continuo aumento della popolazione mondiale renderà sempre più un business la gestione delle risorse alimentari

Land grabbin è un termine inglese che dovremo imparare a conoscere nei prossimi anni, ma non essendoci in italiano un corrispettivo linguistico adeguato, possiamo tradurlo come una forma d’accaparramento di grandi terre, spesso senza consenso e, dunque, in violazione dei diritti umani senza peraltro valutare le conseguenze sociali, economiche e ambientali, il tutto senza accordi chiari e onesti.
Una traduzione un po’ lunga, certamente, ma credo che sia abbastanza chiarificatrice del problema che sarà sicuramente nelle agende dei governi per i prossimi anni.
Il dato fondamentale, per capire questo nuovo tipo d’investimento, è l’aumento della popolazione mondiale con la conseguente diminuzione delle risorse, non solo energetiche, ma soprattutto alimentari le quali, per la famosa legge economica della domanda e dell’offerta, diventerà il business di domani.
Davanti ad una domanda sempre crescente e una produzione insufficiente, si possono ottenere guadagni stellari, altro che petrolio o droga, qui si parla della pura e semplice sopravvivenza umana.
La conferma di questo affare del futuro assai prossimo, lo confermano le stime demografiche planetarie annunciando che per il 2050 saremo ben nove miliardi a contenderci il pianeta, con tutto quello che questo significa, primi tra tutti l’alimentazione.
Per nutrire miliardi d’individui è stimato che bisognerà aumentare del 78% la produzione di carne, del 57% quella di cereali e del 36% quella di radici e tuberi.
Niente male come problema, ma ce n’è un altro ancora più grave: sempre entro il 2050, quattro miliardi di persone abiteranno in posti dove la penuria d’acqua sarà addirittura cronica con tutte le conseguenze facili da immaginare.
Fatto questo preambolo, le cosiddette land grabbin cominciano ad avere un significato assai reale.
I grandi investitori mondiali hanno compreso il business di domani e cercano di prepararsi  come conviene. Così è cominciata una silenziosa corsa di quello che possiamo definire un accaparramento di terre per l’agricoltura di domani tale da far dire ad un importante investitore come l’americano Jim Rogers che «la terra coltivabile sarà uno dei migliori investimenti dei nostri tempi», lo stesso riguarda anche le fonti idriche per un mondo sempre più assetato.
Veramente una bella prospettiva specie per chi vive in Paesi poveri del pianeta.
A seguire i consigli di Rogers troviamo, nella classifica delle nazioni acquirenti, al primo posto gli Stati Uniti  con oltre 7 milioni di ettari, seguiti da Malesia con  3 milioni, dagli Emirati Arabi Uniti con 2,8 milioni e il Regno Unito con 2,2 milioni. Abbiamo ancora la Cina, con 2.090.796 ettari, l’Arabia Saudita, con 1.610.117 ettari, e il Giappone, con 324.262 ettari.
Ma dove comprano tanta terra?
Principalmente nei Paesi in via di sviluppo come la Papua Nuova Guinea, la più sfruttata con quasi 4 milioni di ettari, l’Indonesia con 3,5 milioni, il Sud Sudan con 3,4 e la Repubblica Democratica del Congo con 2,7 milioni.
Un incetta instancabile, che non riguarda solo il cosiddetto Terzo Mondo, ma anche la nostra Europa.
Secondo uno studio recente, colossi dell’agro-business del hedge fund, il fondo comune di investimento privato, aziende cinesi e russe hanno acquistato grandi appezzamenti in Ungheria, Romania, Serbia, Ucraina, in nazioni colpite dalla crisi come la Spagna e quindi in Germania, Francia e Austria arrivando a situazioni controverse dove il 3% dei proprietari di terreni agricoli detiene oggi in Europa il 50% di tutte le superfici agrarie.
Infine in questa gara di acquisti di terra anche noi italiani, nel nostro piccolo, non ci facciamo mancare nulla.
I nostri investimenti sono rivolti soprattutto in Africa e in Paesi come l’Etiopia, la Liberia, il Mozambico e specialmente il Senegal dove dal 2005 in quasi dieci anni, abbiamo acquistato più di 80mila ettari di terra.
Non tutti, per correttezza, sono degli sfruttatori, ma certo questo tipo di acquisti crea spesso non pochi problemi di squilibrio sociale ed economico aggravando situazioni già assai precarie, ma fino a quando i governi interessati alla cessione della propria terra continuano ad offrire i loro terreni a condizioni estremamente vantaggiose il problema non si risolve certamente.
Se pensiamo che l’affitto di un appezzamento può ammontare anche a uno o due dollari all’anno per ettaro, gli acquirenti non mancheranno di certo, tanto da rendere irrilevanti anche i tanti rischi come la mancanza di infrastrutture l’instabilità politica o la presenza non certo incoraggiante di movimenti di bande armate, fattori che normalmente, in altre situazioni, scoraggerebbero qualsiasi investitore.
La Oxfam, (Confederazione internazionale specializzata in aiuto umanitario e progetti di sviluppo) ha presentato dei dati assai significativi: più del 60 % di investitori stranieri nei Paesi in via di sviluppo esporta tutto ciò che viene prodotto e, se ciò non bastasse, molti dei terreni acquisiti vengono lasciati trascurati in attesa di coltivazioni vantaggiose oppure sfruttati a monoculture intensive anche per biocombustibili che, da risorsa biologica, sta diventando un problema.
I 2/3 degli accordi sull’acquisto di terra negli ultimi 10 anni, sempre dati Oxfam, sono stati finalizzati a produrre materie prime per biocarburanti come olio di palma, soia, canna da zucchero e una pianta arbustiva come la jatropha.
Una speculazione che spesso, come in quest’ultimo caso, distrugge il rapporto tra uomo e territorio con il suo habitat naturale e sociale, una ricchezza culturale che si perde per sempre e con essa le proprie radici e lo stesso futuro.

Antonello Cannarozzo

©FAO/J.Belgrave

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Antonello Cannarozzo
Giornalista professionista dal 1982. Nasce come consulente pubblicitario, in seguito entra nella redazione del quotidiano Il Popolo, dove diviene vaticanista ed in seguito redattore capo. Dal 1995 è libero professionista e collabora con diverse testate su argomenti di carattere sociale. In questi anni si occupa anche di pubbliche relazioni e di uffici stampa. La sua passione rimane, però, la storia e in particolar modo quella meno conosciuta e curiosa. Attualmente, è nella direzione del giornale on line Italiani.net, rivolto ai nostri connazionali in America Latina, e collabora con Wall street international magazine con articoli di storia.

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