L’assedio di Kobane: i combattenti curdi appaiono sempre più soli

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Lo Stato Islamico si delinea come un pericoloso progetto politico

Kobane, una città siriana che in occidente pochi conoscevano prima che entrasse nel mirino dell’Isis, è divenuta un luogo simbolo della resistenza contro lo Stato islamico. Eppure il suo valore non è puramente emblematico, ma riveste un’importanza strategica fondamentale. Un manipolo di peshmerga, leggendari combattenti curdi, fronteggia le soverchianti forze dell’Isis.

Nonostante i ripetuti proclami provenienti da Ankara, secondo i quali la Turchia non avrebbe permesso in alcun modo la capitolazione di una città che si trova a ridosso dei propri confini, e nonostante l’avvio dei raid aerei promossi dal presidente Obama, l’assedio sembra vivere le sue ultime ore, con i curdi stremati, le munizioni agli sgoccioli, e i jihaidisti che stanno guadagnando terreno quartiere dopo quartiere.

La bandiera nera, macabro catalizzatore delle istanze estremiste, già sventola su alcuni palazzi della città. I curdi si difendono con le armi leggere che hanno a disposizione, sfruttando la loro esperienza di guerriglieri. Dalle alture prospicienti appena conquistate i combattenti islamici martellano l’abitato con colpi di artiglieria pesante, in vista dell’offensiva finale.

Perché la coalizione guidata dagli Stati Uniti non colpisce queste postazioni, permettendo ai peshmerga di tirare il fiato? Perché nessuno bombarda i carri che lo Stato islamico ha ammassato attorno alla città, mezzi in gran parte sottratti all’esercito di Damasco, dissoltosi come neve al sole?

In questa prima fase i raid sembrano  concentrati sulle istallazioni petrolifere, importante ma non unica forma di finanziamento dell’Isis. Operazione che, secondo varie fonti, è stata coronata dal successo. Gli attacchi alle postazioni militari non paiono altrettanto efficaci. Medesimo problema in Iraq, dove i raid aerei non fermano l’avanzata degli jihadisti.

800px-Peshmurga_Kurdish_MilitiaMolti opinionisti ed esperti del settore proclamano a gran voce l’idea che, senza un intervento di terra, i bombardamenti sono inutili, cosa certamente vera. Senza un fattivo controllo del territorio non si possono raggiungere risultati durevoli. Ma è anche vero che i curdi sono stati completamente abbandonati a sé stessi. L’esercito turco, schierato ai confini, assiste al massacro senza muovere un dito. Evocare il genocidio perpetrato ai danni del popolo curdo è a questo punto superfluo. Tutto questo mentre il Times divulga la notizia di uno scambio di prigionieri fra il governo turco e l’Isis: circa 180 jihadisti liberati in cambio di 46 diplomatici di Ankara.

Le armi promesse ai peshmerga sembrano non essere arrivate, o essere giunte solo in minima parte, se i media parlano continuamente di scarsità di munizioni. Il problema risiede forse nel pericolo, paventato dalla Turchia, che questi armamenti finiscano nelle mani del Pkk, il partito curdo dei lavoratori, alimentando istanze separatiste. La gendarmeria di frontiera starebbe addirittura impedendo l’arrivo di armi e aiuti alle milizie dei peshmerga. Il premier Erdoğan teme infatti una legittimizzazione internazionale dell’indipendentismo curdo. L’opinione pubblica interna inizia a mostrare il proprio disappunto. Violente manifestazioni contrarie all’immobilismo governativo sono segnalate ad Istanbul e in altre città.

La partita è estremamente complessa. La questione petrolio su tutto, con la Turchia più volte accusata di non contrastare il passaggio del greggio dell’Isis attraverso i propri confini. Gli Stati Uniti si trovano poi in una situazione controversa e difficile; devono fronteggiare gli jihadisti, il che rischia di favorire il governo di Damasco. A tale proposito il primo ministro turco Ahmet Davutoğlu ha dichiarato alla Cnn che la Turchia invierà i propri militari in Siria solo se la strategia americana includerà anche la destituzione di Assad il quale, dal canto suo, ha minacciato una guerra globale se l’esercito di Ankara violerà i confini patrii.

Un dilemma arduo da sciogliere per Barack Obama, il quale ha sempre respinto l’ipotesi di un intervento di terra, anche come segno di discontinuità rispetto all’amministrazione Bush.

Una situazione della quale ora fanno le spese i curdi che, nonostante l’attenzione dei media e della comunità internazionale, appaiono sempre più come le vittime sacrificali predestinate.

Con lo Stato islamico ai confini della Nato, anche l’Europa non dorme sonni tranquilli. Uno scenario che sarebbe pericoloso sottovalutare, visto che il vento jihadista rischia di diffondersi come un virus letale in tutto il Medio Oriente, e che il Califfato si delinea sempre più come un pericoloso progetto politico, trascendendo i limiti dell’ideologia radicale limitata a poche menti terroristiche.

Riccardo Cenci

Foto Obama © European Community, 2014

Foto al centro © Jim Gordon Wiki Commons

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Riccardo Cenci
Riccardo Cenci. Laureato in Lingue e letterature straniere moderne ed in Lettere presso l’Università La Sapienza. Giornalista pubblicista, ha iniziato come critico nel campo della musica classica, per estendere in seguito la propria attività all’intero ambito culturale. Ha collaborato con numerosi quotidiani, periodici, radio e siti web. All’intensa attività giornalistica ha affiancato quella di docente e di scrittore. Ha pubblicato vari libri (raccolte di racconti e romanzi). Attualmente lavora come Dirigente presso l’Enpam.

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